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La spiritualità del grappolo d'uva


Vivere la carità in famiglia

Il logo della carità familiare ha firme d’autore! 

Il logo della carità familiare è stato ideato da artisti rigorosamente esperti in tematiche relative alla famiglia. Ho avuto la fortuna di vedere molti di questi luminari al lavoro: l’ultimo si chiamava Leonardo ed è stato come i suoi predecessori veloce e deciso. Impugnava la matita con la mano destra, teneva la lingua tra i denti per sorreggere lo sforzo e lavorava con entusiasmo. Prima ha tracciato un rettangolo, sopra vi ha disegnato un triangolo e poi ha scavato due quadratini e un rettangolo più piccolo all’interno della figura grande … Così: 
Dite che è una casa? E sì, in realtà si tratta davvero di una casa, una di quelle casette che disegnano i bambini ancora piccoli. D’altra parte Leonardo ha sette anni ed è davvero un grande esperto di famiglia, come tutti i suoi compagni, che vivono a pane e relazioni familiari, senza delle quali non saprebbero nemmeno respirare. 
Al disegno infantile della casa molti psicologi esperti del settore attribuiscono un'importanza rilevante: lo ritengono infatti carico di contenuti emotivi, capace di rappresentare i rapporti del bambino con i genitori, di evidenziare il suo ruolo nella famiglia e anche di mostrare che cosa pensa del suo futuro. La casa esprime inoltre il bisogno del bimbo di vivere sotto un tetto sicuro, al riparo dai pericoli esterni. Molte altre informazioni importanti deducono gli studiosi dalle rappresentazioni grafiche infantili della casa, a seconda se le finestre sono aperte o chiuse, se dal comignolo esce il fumo, se sul tetto c’è un’antenna, se attaccata alla porta c’è una strada, se intorno ci sono altre figure e così via.[1] Si tratta quindi di un disegno particolarmente adatto a rappresentare la famiglia in quanto nido umano di affetti e relazioni. 
Ma perché la casa bambina potrebbe essere usata proprio come simbolo grafico della carità familiare? Per rispondere ritorniamo a Leonardo, che prima di tutto ha tracciato un rettangolo un po’ sbilenco per costruire le pareti, che avvolgono, creano calore e proteggono: proprio come fa l’amore di Dio, dal quale comincia l’avventura umana della carità. 
Poi Leonardo ha disegnato il tetto a tre punte. Tre, come le tre parole suggerite da Papa Francesco, con le quali ha reso concreta l’impossibile possibilità di andare d’accordo in famiglia: per piacere, grazie, scusa. Infine il nostro artista ha inciso le finestre e le porte, riservandosi la possibilità di guardare fuori e uscire: guardare per vedere i bisogni del mondo, uscire per andare incontro ai fratelli. 
Sono le tre facce della carità vissuta nelle famiglie cristiane: tutto ha origine con l’Amore di Dio, senza del quale nulla potrebbe incominciare; tutto continua nei rapporti familiari, fondati sull’affetto e sul rispetto, e tutto fluisce poi nell’uscita verso l’esterno, incontro a quelle periferie in cui abitano i bisogni dei fratelli. Durante questo incontro, vedremo quindi questi tre aspetti della carità familiare: l’amore di Dio, l’amore all’interno della famiglia, l’amore che esce e si fa prossimità. 

1. Le pareti astigmatiche: quando Dio s’innamora


Incominciamo quindi come il piccolo Leonardo a disegnare le pareti della nostra casetta. Sappiamo già che saranno un po’ sbilenche, perché quando si parla di Dio non si può che balbettare. Anche usando la riga della Parola e la squadra della preghiera, non riusciremo mai a disegnare perfettamente la figura dell’Amore di Dio per noi, che sa di infinito. 
Scrive il teologo Giovanni Moioli: 
Se vogliamo parlare della carità, senza impoverirne l’enorme ricchezza, dobbiamo metterci di fronte a Gesù Cristo. (…) Manifestata in Gesù Cristo, la carità di Dio ha in Lui il suo luogo umano: è apparsa lì, è per così dire concentrata lì, non si trova al di fuori. (…) La carità è Dio che si manifesta e si dona in Cristo; è Gesù Cristo che manifesta, traduce e vive la carità di Dio … .[2]

Solo l’intuizione della fede può vedere e leggere l’amore di Dio: è sempre il tempio dell’umanità di Cristo il luogo dell’incontro con Dio, il luogo in cui lo Spirito si rende conoscibile. Sperimentare la carità allora significa innanzitutto tre cose: Vangelo, preghiera, Eucaristia. Tre territori, tre spazi esistenziali e spirituali, tre punti legati in circolo che ci permettono di indagare Gesù, la sua identità, le sue peculiarità; ci permettono di percepire il suo amore e di viverlo a nostra volta. 

Il Vangelo al posto d’onore nelle case dei nostri bambini, dopo la consegna solenne al termine del primo anno di catechesi, qualche paginetta letta insieme e insieme commentata, almeno una volta alla settimana… Ed ecco che a poco a poco Gesù diventa uno di noi, uno di famiglia, uno conosciuto e amato, un uomo straordinariamente sorprendente, così diverso da noi e così uguale, uno che abita con noi, che siede alla nostra tavola, che veglia sui nostri letti, uno al quale stiamo veramente a cuore. È il realismo della fede, nutrito e irrobustito dal contatto corpo a corpo con il Vangelo. 

La preghiera. Quando una famiglia si raduna nella preghiera (anche breve, anche leggera, anche disturbata dai capricci dei piccoli) non può non conoscere, esplorare intimamente, vivere l’amore del Padre. E lì nasce la carità, perché l’amore divino non può non riversarsi sui figli e come l’amore di un papà uomo chiama a gran voce l’amore del figlio bambino, così l’amore del papà Dio chiama e crea l’amore dei suoi figlioli, uniti nella loro famiglia.[3]

E infine l’Eucaristia. È qui che veramente le pareti della nostra casetta non possono che apparire sgangherate ai nostri occhi: qui diventiamo tutti astigmatici e balbuzienti, qui smettiamo di udire con chiarezza e non c’è apparecchio acustico che ci possa aiutare. I sensi non ci sostengono! Capire? Impossibile. Accettare? Troppo poco. Fidarsi, affidarsi, immergersi, capire sì, ma con l’intelligenza della fede. Lasciarsi sedurre, lasciarsi amare, lasciarsi sommergere dall’amore. E poi amare a nostra volta: una famiglia che si reca unita alla Messa domenicale fa esercizi estremi di amore. 

Senza dimenticare che noi non potremmo amare Dio se non incominciasse Lui: l’iniziativa è sua, il dono è suo, anche se noi di solito lo scopriamo solo dopo, quando ormai abbiamo risposto, quando ormai ci siamo lasciati trascinare da Lui. Una volta entrati nel giro della preghiera, ci chiediamo: “Come mai? Come mai mi è successa questa cosa straordinaria d’incontrarmi con Dio?”. E allora ci rendiamo conto che Lui ci ha invitati, ha bussato alla nostra porta e l’ha fatto con discrezione, ma con insistenza. Perché si può essere discreti e insistenti nello stesso tempo: gli innamorati sono discreti e contemporaneamente insistenti. E nessuno è innamorato di noi più del Padre e di suo figlio Gesù. 

2. La letizia, il tetto e la spiritualità del grappolo d’uva 

2.1 La letizia 

L’amore di Dio e per Dio non si ferma: la sua stessa natura esige di “passare oltre”, cioè di essere portato ai fratelli. A tragitto inverso, Laura, una mamma di lungo corso, che testimonia ciò che ha vissuto, dice: “Nel vivere la famiglia si acquista la consapevolezza che l’unico amore capace di produrre frutto (in ogni senso della vita) è quello che si muove a immagine dell’amore di Dio e da questo trae il suo nutrimento. Questo amore è la Carità”. “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12) ci ha detto Gesù: troveremo in noi la carità se faremo unità con Lui, se parteciperemo a Lui, se diventeremo Lui. Prima che un insieme di gesti la carità è dunque anche per noi un modo di essere: il modo di essere di una persona che è “come Cristo”, che vive di Lui e come Lui.[4]

“Ma come si fa ad essere come Gesù?” chiedono i bambini e lo chiedono anche i grandi: “Come si fa ad essere come Gesù?”. Ce lo dice S. Paolo, nel famoso Inno alla carità (1Cor 13,4-7) e a lui fa eco Papa Francesco, che nell’esortazione apostolica Amoris laetitia, al capitolo quattro, ce lo spiega proprio applicandolo alla vita familiare. Noi ora lo rileggiamo scorgendo in controluce la figura di Gesù: se vale la pena di vivere come l’Inno alla carità suggerisce è perché in questo modo è vissuto Gesù. 

«La carità è paziente,/ benevola è la carità;/ non è invidiosa,/ non si vanta,/ non si gonfia / d’orgoglio,/ non manca di rispetto,/ non cerca il proprio interesse,/ non si adira,/ non tiene conto del male ricevuto,/ non gode dell’ingiustizia /ma si rallegra della verità./ Tutto scusa,/ tutto crede,/
tutto spera,/ tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7). 

La carità è paziente. Chi ha pazienza, dice il Papa, “non si lascia guidare dagli impulsi ed evita di aggredire”[5]. Questo non significa lasciarsi trattare male o tollerare violenze fisiche: è paziente chi è capace di non essere né aspro né continuamente sdegnoso, chi accetta l’altro anche se diverso da sé (Ef 4,31) … proprio come Gesù, che non sgridò neanche il giovane ricco che se ne andava senza nemmeno girarsi a guardarlo. Chi è impaziente vuole invece che gli altri si comportino sempre secondo la sua volontà e per questo nel suo sguardo c’è poca empatia. Alcuni genitori diventano eccessivamente severi e aspri, perché pretendono troppo dai figli, pretendono ciò che i figli non possono dare. Bisogna coniugare l’esigenza con la pazienza di chi rispetta e attende i tempi di ciascuno. La pazienza crea un ambiente calmo e fiorito, ben diverso dal campo di battaglia in cui si fronteggiano i membri delle famiglie impazienti e aggressive, dove tutti vivono sulle difensive, dove troppo spesso si urla e qualche volta … volano i piatti. 

La carità è benevola. La carità ha lo sguardo buono, fa del bene agli altri e li promuove.[6] L’amore è fecondo per chi lo riceve e permette a chi lo dà di sperimentare la gioia del contagio. I genitori dei nostri bambini, chiamati da Dio a generare e a prendersi cura,[7] solitamente non desiderano altro che far del bene ai figli, avviandoli su strade di auto-realizzazione e di felicità. Sanno donarsi in modo “esagerato”, senza misure, amano dare e servire, ma spesso devono imparare quale sia il vero bene dei figli: persone che hanno deciso che Dio è irrilevante nella loro vita e insignificante per la felicità sanno qual è il vero Bene? Occorre imparare da Gesù, che sapeva additare con certezza la via giusta per diventare persone capaci di afferrare e fare della vera gioia la propria strada. 

La carità non è invidiosa. Chi di noi non ha provato almeno una volta nella vita il sapore amaro dell’invidia e della gelosia? L’invidia “è una tristezza per il bene altrui: dimostra che la felicità degli altri, invece che comunicarci gioia, ci fa male.”[8] Viene dalla concentrazione esclusiva su di sé: mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi e ci conduce su spazi liberi e soleggiati, l’invidia e la gelosia ci portano sempre più a sprofondare negli abissi gelidi del nostro io, che a questo punto si configura come il nostro più vero nemico. “Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia. Accetta il fatto che ognuno abbia doni differenti e percorra strade diverse nella vita”[9], crede sinceramente che i risultati buoni di un famigliare siano una risorsa per tutti. I bambini vivono naturalmente la gelosia nei confronti dei fratelli e ci vuole tutta la sapienza dei genitori per lasciare innanzitutto che questo problematico sentimento emerga e poi che venga poco per volta e con pazienza riconosciuto ed elaborato: occorrerà rassicurare i piccoli circa l’affetto che papà e mamma hanno per tutti loro, bisognerà essere molto attenti nel non fare preferenze, si dovranno creare momenti di forte intimità e complicità buona con tutti. Sarà importante avviare i bambini allo spirito di cooperazione, che è il vero rimedio al potere corrosivo dell’invidia e della rivalità. Sarà la fiducia di base sperimentata con forza nella prima infanzia e continuamente ritrovata nelle esperienze della vita a condurre i bambini al superamento di invidie e gelosie ea sentirsi custodi dei propri fratelli, per arrivare ad assaporare la libertà e la sicurezza di chi si sa figlio amato e non ha pertanto bisogno di confrontarsi con gli altri. Anche la preparazione alla prima confessione aiuterà i bambini a smascherare dentro di loro i sentimenti negativi e ad affidarli a Gesù, chiedendogli il segreto per essere come Lui contenti del bene altrui e concentrati nel procurarlo. 

La carità non si vanta e non si gonfia di orgoglio, cioè in definitiva è umile, sincera e mai arrogante. E d’altra parte in famiglia è difficile fingere e mentire. La convivenza infatti tende a strappare tutte le maschere che s’indossano altrove: il nido familiare è il luogo dell’autenticità.[10] Ci sono però genitori vanagloriosi o eccessivamente ambiziosi: se pretendono che i figli li seguano su questa stessa strada, fanno davvero un brutto regalo ai piccoli, perché tolgono loro la libertà di essere sé stessi, di godere delle piccole cose, di costruirsi da sé la propria scala di valori. In famiglia, chi ama ha il suo centro negli altri, sa mettersi al loro posto, non si attribuisce meriti inesistenti. L’umiltà è parte dell’amore, perché è indispensabile per comprendere, scusare e servire gli altri.[11] Gesù diceva di essere venuto nel mondo per servire ed era effettivamente così. 

La carità non manca di rispetto, è amabile.“L’amabilità non è uno stile che un cristiano possa scegliere o rifiutare: è parte delle esigenze irrinunciabili dell’amore”, perché “chi ama detesta far soffrire” e perciò non agisce in modo rude o scortese, né in maniera dura o rigida;[12] i suoi atteggiamenti, le parole, i gesti sono intrisi di dolcezza come quelli di Gesù, che era mite e umile di cuore (Mt, 11, 28-30). Ci sono coniugi e genitori che parlano sempre male del compagno o dei figli, mettendone in rilievo difetti ed errori: rivelano così il loro pessimismo e probabilmente anche ciò che pensano di sé stessi, e quindi la loro carenza di autostima. E ci sono genitori che difendono sempre i figli e ne vantano continuamente le qualità, vere o presunte, svelando in realtà i loro stessi desideri: gli sventurati piccoli sono chiamati ai successi che ai parenti sono mancati. Agli uni e agli altri manca “lo sguardo amabile”, cioè quella misura valoriale che permette di non soffermarsi molto sui limiti dell’altro e di generare una dedizione foriera di legami solidi, di sensi di appartenenza buoni, di convivenze possibili e piacevoli. “Chi ama è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano”[13] e assomigliano alle parole di Gesù: «Grande è la tua fede!» (Mt 15,28). «Alzati!» (Mc 5,41). «Va’ in pace» (Lc 7,50). «Non abbiate paura» (Mt 14,27). Sono parole che non umiliano mai, non rattristano, non irritano, non disprezzano. È urgente imparare questo linguaggio! 

La carità non cerca il proprio interesse. Per un cristiano l’amore per sé stessi, pur essendo necessario, non è prioritario:[14] Gesù ha goduto di essere amato, ma ha soprattutto voluto amare e si è spinto oltre la giustizia fino a dare la vita per noi. Il suo amore è straripato e non ha chiesto nulla in cambio. E a noi dice: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). È proprio dell’amore genitoriale donarsi completamente, mettendo il bene dei figli davanti al proprio, ma talvolta, soprattutto quando mamma e papà sono impegnati in separazioni dolorose, questo non accade più, pur non venendo meno solitamente l’affetto per i figli, il quale però viene messo in secondo piano. A tutti gli educatori è capitato di dover accogliere e sostenere la sofferenza di bambini coinvolti loro malgrado in disgrazie di questo tipo. In questi casi, non soltanto i bimbi sono da aiutare, ma anche i loro genitori, perché comprendano che la serenità dei piccoli viene prima di ogni rivendicazione e di ogni conflitto: se non potranno più amarsi, potranno sempre cooperare per il bene dei figli. 

La carità non si adira. C’è un’indignazione sana, come quella che mosse Gesù contro i farisei e i profanatori del tempio, e c’è un’indignazione malata. La collera è giusta quando ci fa reagire di fronte a un’ingiustizia, ma diventa dannosa quando tende a intridere tutti i nostri atteggiamenti verso gli altri. “Una cosa è sentire la forza dell’aggressività che erompe e altra cosa è acconsentire ad essa, lasciando che diventi un atteggiamento permanente”[15]. Questo tipo di aggressività e di rabbia diventa contagioso e rende infernale il clima familiare. Da catechisti, occorre tenere gli occhi aperti: quando vediamo un bambino assumere un continuo atteggiamento sofferente o lo vediamo adirarsi per ogni piccola cosa, alterando il suo mondo relazionale, dovremo con delicatezza lanciare uno sguardo discreto nel suo universo familiare ed eventualmente parlarne al parroco, il quale sicuramente dispone di strade più immediate delle nostre, adatte a leggere la situazione e a farvi fronte. 

La carità non tiene conto del male ricevuto. Quando riceviamo del male, l’amor proprio ferito ci porta spesso al di là della giusta rivendicazione dei nostri diritti e della difesa della nostra dignità e diventa un bisturi che incide il muscolo cardiaco con precisione, una penna spesso indelebile che scrive minuziosamente le offese, punto per punto, sui fogli bianchi del pensiero. È così che il rancore si annida nel cuore e morde le viscere e annebbia, anzi cancella completamente la carità. Una volta radicato, sarà difficilissimo strappare l’odio dal cuore e inevitabilmente incomincerà a dipanarsi la catena delle vendette e delle crudeltà, che con il tempo si rivelerà persistente. Quando avvenimenti di questo genere avvengono in una famiglia, si aprono baratri di sofferenza impensabili e inimmaginabili. Bisogna fermarsi prima. Occorre la forza eversiva del perdono, che guarisca, lavi, purifichi, arieggi i locali del cuore, faccia rientrare il sole a illuminare i pensieri. Il perdono, benché difficilissimo, è componente positiva ed essenziale dell’amore: come non c’è relazione senza conflitto, così non c’è amore senza perdono. Ci vuole la gomma del perdono per cancellare le scritte del male ricevuto e tenacemente annotato nella memoria. Ma come si fa a perdonare quando si è offesi, cioè quando i nostri pensieri e i nostri sentimenti sono completamente avvolti dalla nube scura del risentimento, della delusione e del dispiacere? Non esiste altro modo che quello adottato da Gesù sulla croce: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Gesù ha allargato il suo cuore fino ad accogliere la debolezza e l’insipienza altrui ed è arrivato a scusare chi lo stava uccidendo! Se vogliamo assomigliargli, dobbiamo imparare a combattere la tendenza ad avvolgerci su noi stessi, alimentando il vittimismo, esagerando la cattiveria altrui e la portata dei torti ricevuti, supponendo cattive intenzioni anche dove non ci sono e continuando a nutrire il rancore fino a renderlo obeso. Certamente per poter perdonare gli altri abbiamo bisogno di passare attraverso l’esperienza liberante del perdono verso noi stessi e questo non è sempre facile. Succede a volte che gli sbagli della vita, o lo sguardo critico delle persone che si amano, spazzino via la stima e l’affetto per la propria persona: c’è allora bisogno di “pregare con la propria storia e imparare a convivere con i propri limiti”[16], per arrivare a perdonarsi e così apprendere a perdonare gli altri. Prima però occorre aver vissuto la gratuità del perdono di Dio, che non guarda ai nostri meriti, ci raggiunge “prima”, ci dà sempre un’altra opportunità, ci promuove e ci rinnova. 
Se accettiamo che l’amore di Dio è senza condizioni, che l’affetto del Padre non si deve comprare né pagare, allora potremo amare al di là di tutto, perdonare gli altri anche quando sono stati ingiusti con noi. Diversamente, la nostra vita in famiglia cesserà di essere un luogo di comprensione, accompagnamento e stimolo, e sarà uno spazio di tensione permanente e di reciproco castigo.[17]
È bello, come ci suggerisce il terzo sussidio “Con te!”, coinvolgere i genitori nella prima riconciliazione sacramentale dei figli, così che, accompagnandoli sulla stessa strada percorsa dal fratello minore della parabola (Lc 15, 11-32), riscoprano l’amore di Dio, che non dipende né dalla loro amabilità né dalla loro moralità: potrebbe essere l’inizio di un perdono prima ricevuto e poi dato, in grado di segnare una nuova partenza e una nuova vita, più ariosa e libera, più calda e facile. 

La carità non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. La prima espressione indica un vergognoso segreto incistato nel cuore dell’uomo: è il veleno covato da chi si sente contento quando vede un’ingiustizia. La frase è completata da quella che segue, che esprime il concetto contrario in modo positivo: la carità si compiace della verità, cioè si rallegra “per il bene dell’altro, quando viene riconosciuta la sua dignità, quando si apprezzano le sue capacità e le sue buone opere.”[18] Come faceva Gesù, quando guariva e perdonava, e così facendo ridava dignità alle persone. Questa è una capacità che va allenata soprattutto in famiglia, il nucleo in cui l’autostima di ogni componente deve potersi espandere nella fiducia, anche attraverso l’abitudine di festeggiare le cose buone che tutti compiono nella vita: le promozioni scolastiche o professionali, i successi lavorativi, il compimento di progetti di volontariato, le tappe sacramentali dei bambini e i loro momenti di passaggio. È questo uno dei modi in cui i piccoli imparano che è bello festeggiare anche quando la festa non è per sé stessi ed è bello specchiarsi nella felicità e nelle bellezze dell’identità altrui e goderne come se fossero proprie. 

La carità tutto scusa. Ci sono atteggiamenti e comportamenti che mettono in pericolo la sopravvivenza dell’amore in famiglia: si tratta delle offese ripetute, ad esempio, oppure della mancanza di fiducia, o della disperazione che qualcosa possa cambiare, o infine delle molestie, dei dispetti, delle piccole e continue persecuzioni. Ebbene, l’amore conserva in sé un “dinamismo contro-culturale” capace di far fronte a qualsiasi minaccia.[19] Perché l’amore vero esige uno sguardo ampio, il quale, pur vedendo i punti deboli del prossimo, è capace di limitare i giudizi, di contenere l’inclinazione a lanciare condanne, di collocare le debolezze altrui nella totalità di un contesto vitale e psicologico fatto di luci e di ombre, senza pretendere la perfezione. Se Gesù non avesse visto e apprezzato l’affetto di Pietro oltre il suo rinnegamento non avremmo avuto il primo papa. In famiglia, in particolare, saper accettare gli altri così come sono, incontrandoli sulla via della comprensione, è davvero fondamentale, se non si vuole seminare frustrazione nei figli e nel partner, che non si sentirebbero mai all’altezza delle attese dei famigliari. 

La carità tutto crede. La carità si fida, perché senza fiducia non è possibile una relazione di libertà, assolutamente necessaria per una buona convivenza familiare. La fiducia è davvero la base di ogni relazione familiare e affonda le radici nella fiducia che Dio per primo ha consegnato ai genitori, affidando a loro la crescita di figli per i quali Lui stesso ha dato la vita. Subito dopo, questa fiducia, divenuta “di base”, passa ai figli, ai quali è necessaria per affrontare la vita; i neonati devono sentire che si possono fidare dei genitori: se loro sono buoni e accudenti, anche il mondo sarà buono e loro saranno “degni di esistere”.[20] Tornando agli adulti, chi non si fida è costretto a controllare tutto e finisce col voler possedere e dominare: è la logica perdente del “padre padrone”, che semina tanta violenza nelle famiglie, come vediamo ogni giorno. Nella vita familiare non può regnare la logica del possesso e del dominio, nemmeno dei genitori sui figli. La libertà regalata con la fiducia rinforza positivamente i piccoli, rende possibili l’autonomia, l’apertura al mondo e alle nuove esperienze, regala uno sguardo buono sulla vita. Contemporaneamente la fiducia “rende possibili la sincerità e la trasparenza, perché quando uno sa che gli altri confidano in lui e ne apprezzano la bontà di fondo, allora si mostra com’è, senza occultamenti”[21]. La fiducia resiliente permette l’emersione della vera identità dei componenti e quindi il rifiuto spontaneo di inganni, falsità e menzogne. È lo sguardo di Gesù su Zaccheo. Al contrario l’ostilità, antagonista della fiducia, semina dolore e disgregazione. 

La carità tutto spera. Che cosa spera la carità? Spera nel futuro ovviamente, spera nello sbocciare della bellezza, nel germogliare di ogni potenzialità, anche delle più nascoste, anche delle più limitate. La speranza infatti permette di contemplare le persone con lo sguardo soprannaturale di Dio: 
È una profonda esperienza spirituale contemplare ogni persona cara con gli occhi di Dio e riconoscere Cristo in lei. (…) Gesù è il nostro modello: quando parlava con qualcuno lo guardava con amore (cfr Mc 10,21). Nessuno si sentiva trascurato in sua presenza, poiché le sue parole e i suoi gesti erano espressione di questa domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Mc 10,51).Questosi vive nella vita quotidiana della famiglia. (…) e così fiorisce la tenerezza …[22]
Chi spera crede nella scrittura diritta di Dio sulle righe storte degli uomini[23] e soprattutto sa che esiste una vita che va oltre alla morte: sulla croce Gesù ha raccolto la speranza del buon ladrone e le ha dato compimento. È importante educare i bambini alla speranza cristiana, non solo perché questa virtù sul piano umano crea l’ottimismo, ma perché in questo modo i piccoli, una volta cresciuti, avranno sempre dei buoni motivi per continuare a vivere e a lottare. 

La carità tutto sopporta. Sono tante le contrarietà e le difficoltà della vita familiare: quelle piccole si presentano sicuramente ogni giorno, quelle grosse … si spera che non arrivino, ma a volte giungono di sorpresa e pesano sulla routine della famiglia. Dai capricci dei bambini all’emicrania che non passa nemmeno con l’analgesico, dai ritardi del marito alle corse in ospedale con il nonno che non sta bene, dal brutto voto a scuola al ragù che brucia, dalla visita dal pediatra ai salti mortali per arrivare a fine mese: ci sono momenti in cui sopportare le contrarietà con spirito positivo sembra impossibile. In questi casi, proprio dall’amore che rende forti viene una resilienza dinamica, costante e potente, “capace di superare qualsiasi sfida”[24] e di nuotare, senza rovesciarsi contro le correnti negative, verso opzioni di bene. 
Una favoletta che fa parte del mondo fantastico della mia infanzia raccontava la storia di una donna, mamma di sei figli: tutti i giorni doveva alzarsi prestissimo, preparare la colazione ai bambini, svegliarli, portarli all’asilo e a scuola, sbrigare le faccende domestiche, preparare da mangiare, lavare, stirare e così via. Una vicina un giorno le disse: “Che brutta vita fai! Io non la farei nemmeno per un milione al mese!” “Io non la farei nemmeno per un miliardo” rispose la mamma. “E allora perché vivi così?” chiese meravigliata la vicina “Per amore” rispose la mamma.
Essere resilienti per amore non significa non sclerare ogni tanto: siamo uomini e donne, non supereroi e super eroine. Questo significa invece non smettere mai di coltivare la forza dell’amore. Significa non lasciarsi dominare dal rancore, dal disprezzo, dal desiderio di ferire, ma continuare invece a mostrare ai figli il volto materno e il volto paterno del Signore. Concretamente questo vuol dire ricostruire magari con un po’ di fatica ma abbastanza velocemente l’armonia familiare, mantenendo fermo l’ideale cristiano, nonostante tutto. Significa dare ai bimbi la sicurezza che nella loro famiglia si sta bene, si è al sicuro … e se anche ogni tanto c’è un po’ di tempesta, mamma e papà non smettono di volersi e volere bene … e poi in fondo hanno ragione e comunque tornerà in fretta il sole, perché con loro c’è anche Gesù! E alla sera, abbandonandosi finalmente al sonno, i due poveri genitori stremati si lasceranno sorprendere e cullare da una domanda: "Ma quanto ha sopportato per noi, per regalarci la felicità, l’Uomo della Croce?" 

Dispiegando le ricchezze dell’Inno alla carità, il Papa ha disegnato un profilo di famiglia che sa di terra e di cielo: è una famiglia in cui regnano pazienza e benevolenza e nella quale invidia, ira, vanagloria e arroganza non hanno domicilio; una famiglia in cui nessuno manca di rispetto agli altri, in cui tutti vivono un’amabilità leggera e facile, perché uniti da valori comuni, e non c’è chi tenti di prevalere sugli altri. È una famiglia, infine, nella quale dimorano e sono di casa il perdono, la giustizia, la verità, la fiducia reciproca, la speranza e la dolce sopportazione. L’ideale è alto, il cammino non facile, la meta affascinante. Che si tratti di cosa possibile, pur in mezzo a difficoltà e regressioni, a mille cadute e risalite, ce lo racconta Laura con la sua testimonianza. 

"Ho notato che, nel confrontarsi con il concetto di Carità, il primo impulso all’interno della nostra famiglia è stato quello di pensare che sia latitante. In mente i battibecchi continui, le discussioni spinose, le aggressioni verbali, i punti di vista distanti, l’amarezza di certe delusioni e l’interpretazione di alcuni comportamenti come tradimenti insanabili. La nostra famiglia, come tutte, non si può sottrarre alla logica della limitatezza umana nell’incarnare l’amore con la maiuscola. Eppure la nostra famiglia non è solo questo. È viva e vivificante. Contraddittoria e coerente. Invadente ma abile a dosare le distanze di autonomia. Capace di ricomporre le fratture. Capace di condividere quello che appartiene al singolo, sostenendolo nella difficoltà, godendo insieme nel momento di gioia. Una casa solida che va oltre i confini di ciascuno di noi componenti, un’anima fatta di spirito e nel contempo di concretezza,un’entità capace di cose incredibili. Il primo gesto fondamentale di carità è prendere consapevolezza di questa sorprendente verità sulla famiglia. Guardarla con occhi capaci di vedere. Mettere gli occhiali giusti per rimediare la miopia umana: il modello di lenti si chiama Cristo. Si chiama amore, si chiama perdono. E qui torna il timore che sia troppo difficile. (…) E allora fai tesoro dei momenti in cui capisci che hai potuto superare degli scogli, impari a guardare ai risultati sulla misura lunga, scopri che la gioia convive con il dolore, non ne viene annientata, al contrario cominci a conoscerne il sapore autentico. Tutto questo ha un nome, ed è Carità. (…) Carità è ascolto. Empatico si dice oggi. Amorevole si diceva una volta. Comunque significa esserci con tutto te stesso. Carità è la strada per la santità. Anche se sappiamo praticarla col contagocce. Senza continuità. Ogni passo però ci avvicina alla meta. Carità è la possibilità di guardare gli altri mentre compiono il passo, non di definirli nell’assenza. La carità è pensare di non potercela fare da soli. Ma non per questo rinunciare. Anzi. Ripartire dai legami. Carità è concedere tempo, come fa Dio con noi. Non ci muoviamo tutti alla stessa velocità. Ma ci muoviamo. Non tutti allo stesso modo. Alle volte carità è perfino negarsi. Ma ci vuole la Carità per capirla. Quella delle lenti speciali, modello Cristo. Ci vuole carità per indossarle. Ci vuole carità per raccoglierle. Perché cadono spesso, spessissimo. Ma si possono riprendere sempre. E non si frantumano mai." 

La famiglia, continua l’Amoris laetitia al capitolo nove, è il luogo di una spiritualità tutta particolare, fatta di migliaia di gesti concreti e di parole belle e buone, attraverso i quali “ognuno, con cura, dipinge e scrive nella vita dell’altro”, creando così una varietà di doni e d’incontri che maturano quella comunione nella quale Dio ama abitare. 

2.2 Il tetto 

A proposito di parole, torniamo al logo della famiglia. Per disegnare il tetto della simbolica casetta, occorrono tre punti di cui due allineati e uno no, tre vertici che unendosi formano un triangolo. È chiaro che ci troviamo nel campo della geometria della reciprocità familiare e i tre vertici hanno tre nomi: “permesso, grazie, scusa”. Ce ne ha parlato ancora lui, il Papa, nell’ormai famosa catechesi del 13 maggio 2015. Vale la pena di rivisitare il suo discorso. 

"Queste parole aprono la strada per vivere bene nella famiglia, per vivere in pace. Sono parole semplici, ma non così semplici da mettere in pratica! Racchiudono una grande forza: la forza di custodire la casa, anche attraverso mille difficoltà e prove; invece la loro mancanza, a poco a poco apre delle crepe che possono farla persino crollare. (…) 
La prima parola è “permesso?”. Quando ci preoccupiamo di chiedere gentilmente anche quello che magari pensiamo di poter pretendere, noi poniamo un vero presidio per lo spirito della convivenza matrimoniale e famigliare. Entrare nella vita dell’altro, anche quando fa parte della nostra vita, chiede la delicatezza di un atteggiamento non invasivo, che rinnova la fiducia e il rispetto. La confidenza, insomma, non autorizza a dare tutto per scontato. (…)Prima di fare una cosa in famiglia: “Permesso, posso farlo? Ti piace che io faccia così?”. Quel linguaggio educato e pieno d’amore. 
La seconda parola è “grazie”. (…)Dobbiamo diventare intransigenti sull’educazione alla gratitudine, alla riconoscenza: la dignità della persona e la giustizia sociale passano entrambe da qui. (…) La gratitudine, poi, per un credente, è nel cuore stesso della fede: un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio. (…) 
La terza parola è “scusa”. Parola difficile, certo, eppure così necessaria. Quando manca, piccole crepe si allargano – anche senza volerlo – fino a diventare fossati profondi. (…) Riconoscere di aver mancato, ed essere desiderosi di restituire ciò che si è tolto – rispetto, sincerità, amore – rende degni del perdono. E così si ferma l’infezione. Se non siamo capaci di scusarci, vuol dire che neppure siamo capaci di perdonare. Nella casa dove non ci si chiede scusa incomincia a mancare l’aria, le acque diventano stagnanti. Tante ferite degli affetti, tante lacerazioni nelle famiglie incominciano con la perdita di questa parola preziosa: “Scusami”. (…) Sentite bene: avete litigato moglie e marito? Figli con i genitori? Avete litigato forte? Non va bene, ma non è il vero problema. Il problema è che questo sentimento sia presente il giorno dopo. Per questo, se avete litigato, mai finire la giornata senza fare la pace in famiglia. E come devo fare la pace? Mettermi in ginocchio? No! Soltanto un piccolo gesto, una cosina così, e l’armonia familiare torna. Basta una carezza! Senza parole. Ma mai finire la giornata in famiglia senza fare la pace! Capito questo? Non è facile, ma si deve fare. E con questo la vita sarà più bella. Queste tre parole-chiave della famiglia sono parole semplici, e forse in un primo momento ci fanno sorridere. Ma quando le dimentichiamo, non c’è più niente da ridere, vero? 

“E con questo la vita sarà più bella”. La vita delle nostre famiglie invoca bellezza: una bellezza capace di rendere più sopportabili le giornate, più leggera la fatica del lavoro, più accettabile la responsabilità di crescere dei figli, più facile coniugare i desideri con le mai soddisfacenti possibilità economiche. Fiducia, rispetto, amore, libertà, capacità di attendere, linguaggio educato, giustizia, gratitudine, sincerità, capacità di perdonare: il Papa ha disegnato intorno alle tre parole chiave un nugolo di vocaboli che insieme formano il lessico di base della buona vita familiare. 

2.3 La spiritualità del grappolo d’uva 

Quanto ai gesti, mi piace terminare questo capitolo con la storia del grappolo d’uva, un racconto che compariva spesso nei libri di lettura di seconda o di terza elementare della seconda metà degli anni ’50, quando la letteratura infantile traboccava di buoni sentimenti e di insegnamenti morali. Non ricordo l’autore e non trovo il racconto nel web, perciò lo riscrivo così come credo di averlo memorizzato.[25]

Lavorando nei campi sotto il solleone, un papà trovò seminascosto tra il fogliame un bellissimo grappolo d’uva: era il primo della stagione e i suoi grossi acini dorati brillavano in mezzo a quelli ancora acerbi dei compagni; sembravano dire: “Mangiaci, mangiaci!”. Il babbo staccò delicatamente il grappolo dal tralcio e con un sospiro di sollievo si accinse ad assaggiarlo: il sole era forte e la sete lo tormentava già da un po’. Aveva appoggiato le dita sul primo acino quando un pensiero lo fermò: davanti a sé vide l’immagine della moglie, che aveva da poco dato alla luce il terzo figlio. “La mia sposa!” pensò: “È certamente più stanca di me, ha lavorato tutto il giorno e non si fermerà fino a questa sera. È meglio che porti a lei questo grappolo così bello.” Si diresse verso casa e trovò la moglie sull’aia, mentre lavava i panni nel mastello. Con un sorriso mise il grappolo tra le sue mani bagnate e senza parlare si allontanò. 
La donna guardò il grappolo: com’era bello e quanto doveva essere buono! Seduto sulla soglia di casa però c’era il suocero, che osservava pensoso l’orizzonte: “Ecco a chi devo dare questo grappolo d’uva” pensò “Questo pover’uomo è vecchio e i vecchi hanno sempre sete e amano le cose dolci”. Si avvicinò all’anziano e gli disse: “Tenete papà, mangiatelo voi questo grappolo d’uva, io non ho fame, non mi va”. 
Con un “Grazie” sommesso e riconoscente, l’uomo si allontanò dal cortile, per gustarsi il frutto in pace. Sul limitare della vigna vide la nipotina di dieci anni: stava stendendo la biancheria, ma doveva alzarsi sulla punta dei piedi, perché le sue manine non arrivavano facilmente ai fili del bucato. “Povera piccola” pensò il nonno “dovrebbe giocare con le sue amiche e invece deve già lavorare come una donnina per aiutare la mamma. Devo dare a lei questo grappolo d’uva: se lo merita più di me!”. Si avvicinò alla bimba e le porse il frutto dorato: “Tieni Maria” disse con dolcezza. “E voi nonno?” chiese preoccupata la bambina. “Io ho già mangiato, non preoccuparti per me, piccinina, mangialo: sentirai com’è buono!”. 
Maria prese il grappolo e, non appena il nonno si fu allontanato, corse nel campo di granoturco, dove il fratellino di sei anni si divertiva cercando grilli e coccinelle. “Pietro!” gridò Maria “guarda che cosa ti ho portato! Me l’ha dato il nonno!”. Quando il bambino vide il grappolo, spalancò gli occhi felice e tese le mani per afferrarlo. Anche la sorellina era contenta, allungò una rapida carezza al piccolo e poi tornò veloce al suo lavoro. 
Pietro pensò subito al suo papà: stava lavorando nei campi da ore, chissà come gli avrebbe fatto piacere un grappolo d’uva così bello! Saltellò fino al campo di saggina, raggiunse il babbo e gli porse con gli occhi che ridevano il sontuoso grappolo. Il babbo riconobbe subito il frutto che aveva dato alla moglie e interrogando il bambino ricostruì facilmente il suo percorso. Si commosse pensando all’affetto che circolava tra i membri della sua famiglia. 

L’antico racconto finiva qui, ma a me piace terminarlo in un altro modo. 

Il papà prese per mano il figliolo e si diresse quasi danzando verso casa. Lungo la via del ritorno chiamò la figlia e insieme arrivarono sull’aia, dove trovarono la mamma e il nonno. Si guardarono negli occhi e scoppiarono in una risata, poi contarono minuziosamente gli acini e li divisero in parti uguali: ne ebbero dodici ciascuno e in tutta la loro vita non assaggiarono mai uva più dolce e più buona. 

Questa secondo me è la spiritualità della famiglia: la spiritualità del grappolo d’uva passato di mano in mano, in cui ognuno pensa all’altro, in una catena di affetti mai chiusa. 
Dice ancora il Papa: 

"Una comunione familiare vissuta bene è un vero cammino di santificazione nella vita ordinaria e di crescita mistica, un mezzo per l’unione intima con Dio. Infatti i bisogni fraterni e comunitari della vita familiare sono un’occasione per aprire sempre più il cuore e questo rende possibile un incontro con il Signore sempre più pieno." [26]

Il movimento è circolare: da una parte l’unione con Dio feconda la comunione in famiglia, dall’altra le relazioni familiari aprono sempre più al legame bello e splendente con Lui, fino ad arrivare alla mistica, fino ad arrivare alla santità. 

3. Le finestre e le porte si aprono: la famiglia esce di casa! 

Non c’è bambino sereno che non disegni nelle casette la porta e un paio di finestre: è la percezione infantile del fatto che la famiglia non basta a sé stessa, ma che ha esigenza di uscire, di incontrare altre persone e altre famiglie. La prima apertura familiare avviene nella famiglia allargata e non sempre è cosa facile. Ce lo racconta Laura. 

"… e si affaccia il profilo malefico della stanchezza, la voglia di abbandonarsi alla rassegnazione, al lasciar perdere, al voltare le spalle a relazioni che sembrano inutili, anzi dannose, anzi irreparabili. Ricordo ad esempio che nel nostro passato, in cui le difficoltà di relazione con le nostre famiglie di origine erano schiaccianti, è stata accarezzata l’idea di una soluzione radicale, di tagliare di netto con queste relazioni. Una fuga da un problema che sembrava più grande delle nostre possibilità di sopravvivergli, portatore di germi di distruzione. Nell’ansia di proteggere i figli e noi stessi, questo allontanamento poteva rappresentare una soluzione. Ma accostandoci a Dio, anche partendo da una preghiera minima e apparentemente incapace di una direzione, abbiamo compreso come questa scelta fosse disumanizzante. Non puoi allontanare una pianta dalle sue radici, non puoi sradicare legami che non sai leggere nella loro interezza. Non puoi conoscerne le conseguenze, ma sai che una pianta senza radici non ha futuro. Piuttosto puoi migliorare il terreno in cui affondano quelle radici. E allora fai tesoro dei momenti in cui capisci che hai potuto superare degli scogli, impari a guardare ai risultati sulla misura lunga, scopri che la gioia convive con il dolore, non ne viene annientata, al contrario cominci a conoscerne il sapore autentico. Tutto questo ha un nome, ed è Carità." 

Afferma a questo proposito l’Amoris laetitia

"Il piccolo nucleo familiare non dovrebbe isolarsi dalla famiglia allargata, dove ci sono i genitori, gli zii, i cugini ed anche i vicini. In tale famiglia larga ci possono essere alcuni che hanno bisogno di aiuto o almeno di compagnia e di gesti di affetto, o possono esserci grandi sofferenze che hanno bisogno di un conforto. L’individualismo di questi tempi a volte conduce a rinchiudersi nella sicurezza di un piccolo nido e a percepire gli altri come un pericolo molesto. Tuttavia, tale isolamento non offre più pace e felicità, ma chiude il cuore della famiglia e la priva dell’orizzonte ampio dell’esistenza." [27]

Con la saggezza di chi conosce bene il mondo della famiglia pur non vivendoci, il Papa raccomanda anche i rapporti con la famiglia del coniuge: 

"Una delicatezza propria dell’amore consiste nell’evitare di vederli come dei concorrenti, come persone pericolose, come invasori. L’unione coniugale chiede di rispettare le loro tradizioni e i loro costumi, cercare di comprendere il loro linguaggio, limitare le critiche, avere cura di loro e integrarli in qualche modo nel proprio cuore." [28]

L’Amoris laetitia ricorda poi gli amici e le famiglie amiche e anche “le comunità di famiglie che si sostengono a vicenda nelle difficoltà, nell’impegno sociale e nella fede.”[29] Ascoltiamo a questo proposito l’esperienza della famiglia di Laura. 

La famiglia, con le sue urgenze, ti insegna a non chiuderti sul dolore, ad aprirti alle tue necessità, a riconoscere le stesse negli altri e nelle altre famiglie, a spostare l’attenzione dai tuoi sensi di colpa e di inadeguatezza, ad aiutare ed essere aiutati. Non so se sia più grande la carità nell’aiutare l’altro o nel farsi aiutare. Forse non c’è una misura. Forse non ci sono confini. Anche geografici e linguistici. 

"Dai parenti e dagli amici la famiglia si allarga ad altre relazioni: essa “non deve pensare sé stessa come un recinto chiamato a proteggersi dalla società”[30], ma “sotto l’impulso dello Spirito, il nucleo familiare non solo accoglie la vita generandola nel proprio seno, ma si apre, esce da sé per riversare il proprio bene sugli altri, per prendersene cura e cercare la loro felicità”[31] e ancora: 

"Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere domestico il mondo, affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello (…) Con la testimonianza, e anche con la parola, le famiglie parlano di Gesù agli altri, trasmettono la fede, risvegliano il desiderio di Dio, e mostrano la bellezza del Vangelo e dello stile di vita che ci propone.”[32]

Ancora una volta la meta è alta e sembra irraggiungibile, ma ancora una volta il Papa scende nel pratico ed esorta le famiglie cristiane ad essere “aperte e solidali”, per fare spazio ai poveri e tessere amicizie con chi sta male. Allo scopo, ricorda ciò che dice il Vangelo: - Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato (Lc 14,12-14). “Sarai beato! Ecco qui il segreto di una famiglia felice” è il suo commento. Ma chi sono oggi i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi di cui parla il Vangelo? Anche a questo proposito, non mancano nell’Amoris laetitia dei suggerimenti concreti che vogliono aiutare le famiglie cristiane a vedere i bisogni del mondo per sopperirvi, aprendosi soprattutto all’ospitalità. 
Questa famiglia allargata dovrebbe accogliere con tanto amore le ragazze madri, i bambini senza genitori, le donne sole che devono portare avanti l’educazione dei loro figli, le persone con disabilità che richiedono molto affetto e vicinanza, i giovani che lottano contro una dipendenza, le persone non sposate, quelle separate o vedove che soffrono la solitudine, gli anziani e i malati che non ricevono l’appoggio dei loro figli (...) Può anche aiutare a compensare le fragilità dei genitori, o a scoprire e denunciare in tempo possibili situazioni di violenza o anche di abuso subite dai bambini, dando loro un amore sano e un sostegno familiare quando i loro genitori non possono assicurarlo.[33]
Una bella esperienza di ospitalità ci è raccontata da Silvana. 

"Quando un’amica mi ha chiesto la disponibilità di ospitare per un paio di mesi una ragazza disabile dell’Ucraina, che aveva bisogno di cure mediche, ne ho parlato in famiglia, con mio marito Serafino e mio fratello, ed è stato per noi naturale offrire la nostra casa, nonostante un po’ di apprensione, perché si trattava comunque di condividere la vita con una persona sconosciuta. Così è arrivata Lena: vent’anni, un solo braccio, gli arti inferiori di 30 cm, una vita trascorsa in orfanotrofio, un’intelligenza, un’allegria e una vitalità quadruplicate rispetto alla norma e nessun imbarazzo a entrare nella nostra famiglia e apprezzare la mia cucina! Era l’inizio di gennaio del 2017 e Lena è rimasta con noi fino alla fine di febbraio. Per lei abbiamo reso accogliente lo spazio che era rimasto vuoto dopo il matrimonio dei nostri figli. Al mattino Serafino la portava al centro dove veniva curata e nel pomeriggio andavo a riprenderla io. La disponibilità dei due uomini di casa mi ha sorpresa. Ci siamo giocati come famiglia e Lena ci ha regalato bei momenti (ha perfino insegnato a giocare a scacchi a mia nipote!), ci ha donato la sua amicizia e ha condiviso con noi anche la sua devozione a san Giorgio. L’esperienza vissuta con lei è stata un’occasione per riflettere sulla bellezza della vita e dell’apertura agli altri, ma soprattutto sulla Presenza di Qualcuno che conduce le nostre esistenze al Bene." 

Il discorso di Silvana mostra una realtà di cui sono ben consapevoli tutte le persone che aiutano i bisognosi: il bene dato si moltiplica e diventa bene ricevuto. 
Oggi le famiglie cristiane sono chiamate in maniera accorata e pressante a rispondere ai bisogni urgenti dei tanti extra comunitari presenti nel territorio. Ascoltiamo a questo proposito una testimonianza che indica una strada facilmente percorribile, semplice, ma capace di dimostrarsi un valido antidoto ai rigurgiti razzisti che imbruttiscono i pensieri e i sentimenti di tanta gente. 

"Con i tanti stranieri presenti fisicamente tra noi, persone troppo lontane dalla loro terra e dalle loro sicurezze, abbiamo sempre vissuto con semplice disponibilità: dall’aiutarli a trovare le soluzioni per le piccole cose di ogni giorno, al condividere un caffè, a fermarsi a chiacchierare al supermercato o davanti alla scuola. Guardando i bambini, che incarnano la Carità, ti accorgi che non ci sono reali differenze di colore di pelle, di sorrisi, di bronci, di giochi, di speranze." [34]

Particolarmente raccomandata dall’Amoris laetitia è l’adozione. 

Coloro che affrontano la sfida di adottare e accolgono una persona in modo incondizionato e gratuito, diventano mediazione dell’amore di Dio che afferma: “Anche se tua madre ti dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (cfr Is 49,15).[35]

Una forma molto diffusa di adozione è oggi quella a distanza, capace di rendere prossimi i bambini lontani, di portare ventate di aria nuova e pulita in famiglia, di educare i figli a qualche rinuncia per i “fratellini” più sfortunati, approdando a conoscenze e sperimentando gioie altrimenti sconosciute. Scrive a questo proposito Laura: “I volti dei bimbi adottati che ci guardano dalle foto appese in cucina o sulla porta di una stanza portano messaggi che vanno ben oltre le parole.” Ci sono famiglie che per ogni figlio proprio ne adottano uno a distanza: in questo modo ogni bambino ha il proprio fratellino lontano, al quale scrivere e mandare regalini. Fioriscono così fraternità che hanno dell’incredibile, capaci di andare contro ogni senso comune, di risalire correnti tumultuose, di rompere gusci che sembravano inattaccabili. 

La famiglia è anche chiamata a dare il proprio contributo alla vita sociale: essa “vive la sua spiritualità peculiare essendo, nello stesso tempo, una Chiesa domestica e una cellula vitale per trasformare il mondo.”[36] È ancora Laura a regalarci un esempio d’impegno semplice ma prezioso. 

Con i figli un passaggio grande, di conoscenza e di crescita, sono state le scuole e l’oratorio. Luoghi in cui puoi passare di striscio o radicare una parte di te. Noi abbiamo scelto di esserci come famiglia e questo ci ha aiutato grandissimamente a tenere insieme la nostra famiglia e farla crescere nella forza, traghettandoci fuori dai momenti bui. È carità mettersi a disposizione, offrire il proprio tempo nella comunità. E poi scoprire che qualunque cosa fai con amore e dedizione “torna”. In famiglia i figli “guardano” e “vedono” tutto. Carità è esempio. Non lo si fa a parole. Ognuno trova il suo modo, non sottraendosi alle occasioni che si presentano spontanee, senza andare a cercarle. Noi ad esempio siamo stati sempre disponibili a coprire incarichi a scuola e servizi in oratorio. Scoprendo la gratuità nelle pieghe di un’esistenza che altrimenti ci circonda avida ed egoista. Carità significa intercettare un bisogno e non restare immobili. 

“La carità esce dalla finestra e rientra dalla porta” recita un vecchio e noto proverbio. È vero: l’amore rientra in famiglia e rientrando migliora le relazioni, le pacifica, le rende profonde e quindi portatrici di felicità, come più volte affermato dal Papa. Amore chiama amore: prima che necessaria al mondo esterno, la carità è indispensabile alla vita delle famiglie stesse, per evitare chiusure di lucchetti sulle gabbie che imprigionano i buoni sentimenti. 

4. A noi, catechisti! 

I paesaggi familiari, che abbiamo visto delinearsi attraverso le parole dell’esortazione apostolica e le testimonianze che l’hanno precisata nel concreto, sono affascinanti, ma difficilmente rintracciabili nella realtà. In questa situazione, che cosa possiamo fare noi catechisti per cercare di inoculare nelle famiglie dei nostri bambini il virus benefico della carità? Leggiamo i messaggi WhatsApp che seguono. Sono stati scritti da una catechista ai genitori dei suoi bambini con l’intento di avviare la sperimentazione della gioia attraverso la carità, per figli e genitori. In molti casi hanno dato davvero il via a esplorazioni caritative inaspettate e sorprendenti; in qualche caso no, ma hanno comunque contribuito a riportare alla memoria delle famiglie la possibilità di uscire dal proprio serraglio e di aprire lucchetti da troppo tempo chiusi. Si tratta ovviamente soltanto di esempi che vogliono scatenare la creatività dei catechisti, da coniugare però sempre con il buon senso: se chiediamo ai genitori esperienze creative, ma poco logiche, impossibili o difficili, le nostre richieste sono destinate a fallire. 


6 novembre 20…… La marcia per famiglie 

Carissimi, domenica siete tutti invitati a partecipare alla marcia per famiglie, il cui ricavato andrà al gruppo missionario della nostra comunità pastorale, gruppo che attualmente sta sostenendo la scuola di Moroto, in Burundi. Per l’iscrizione sono richiesti 5 euro agli adulti, un euro ai bambini. Cammineremo lungo i sentieri dei nostri bellissimi boschi, su tappeti di foglie profumate, bevendoci l’ultimo sole della stagione, lasciandoci avvolgere dai colori caldi degli alberi, ma soprattutto godendo l’intimità familiare, arricchita e abbellita dalla vicinanza di altre famiglie, nelle quali specchiarci e con le quali condividere gioie e difficoltà. Anche le relazioni familiari ne avranno beneficio: è una promessa. Spero di vedervi tutti. 

13 novembre 20……La spesa di Avvento 

Buonasera carissimi genitori. Domenica incomincia l’Avvento e la nostra comunità si apre all’esercizio bello e gioioso della carità. Per questo in chiesa troverete sei scatoloni che aspettano di essere riempiti con dei doni per i poveri: è una specie di calendario dell’Avvento tutto speciale e destinato a piacere moltissimo a Gesù.Ogni settimana i bambini porteranno a casa dal catechismo un foglietto che indicherà i prodotti da acquistare e donare alle famiglie bisognose. Il gesto che vi è chiesto è particolarmente adatto ad essere vissuto da tutta la famiglia, compresi i bambini, che desiderano sentirsi protagonisti con voi. Per questo vi chiederei di seguire alcuni passaggi, finalizzati ad aumentare la vostra unione familiare, la complicità fra di voi e quindi la vostra felicità. 1) Una di queste sere, a televisore spento, potreste parlare insieme dell’iniziativa, in modo che la decisione venga presa da tutta la famiglia; in questa occasione potreste decidere quanto spendere per i poveri e chiedere che anche i bambini diano qualche soldino dei loro risparmi, da unire alla somma familiare; si può terminare la piccola riunione con una breve preghiera, in modo da presentare a Gesù il bel regalo (oggi i bambini hanno imparato che chi fa qualcosa per un povero lo fa per Gesù stesso). 2)Quando andrete a fare la spesa, sarebbe bellissimo portare anche i bambini e decidere con loro che cosa prendere, tenendo presente che per i poveri in cui abita Gesù ci vogliono le cose buone, non quelle scadenti. 3)Al momento di pagare, anche i bambini daranno il loro soldino: senza la loro parte il dono non sarebbe completo. 4) Domenica tutta la famiglia andrà in chiesa per la Messa (questa è la cosa che vi raccomandiamo di più: è arrivato il momento di mostrare ai bambini che l’Eucaristia è importante anche per i grandi, non solo per loro!). Saranno i bambini a mettere il dono per i poveri nello scatolone, ma lo faranno accompagnati dalla loro famiglia, sotto lo sguardo rassicurante, felice e insostituibile di mamma e papà. Se lo farete, scaverete radici lunghe per l’affetto che vi unisce, perché l’amore aumenta in quanto si dona. È una sfida che vi lancia lo stesso Gesù! Grazie, vvttttb. 

14 dicembre 20... Il dono 

Carissimi, oggi i vostri bambini vi portano un libro: è il mio regalo per voi. Ho detto che avrei potuto regalare qualcosa a loro, ma volevo che provassero la gioia di donare. Sono stati felicissimi: come vi vogliono bene! Il discorso che dovrebbero fare suona più o meno così: “Questo libro ve lo dona la catechista, ma anch’io ve lo do insieme a lei, perché ho rinunciato al regalo per me per darlo a voi.” A questo punto, secondo il copione concordato dovrebbero abbracciarvi fortissimo. Se per l’emozione non riescono a dire tutto, potreste aiutarli voi con delicatezza? Vi auguro un Natale caldo di affetti, intimità, dolcezza e preghiera, capace di dare alla vostra famiglia nuovo slancio e grande gioia! 

7 marzo 20... Messa animata e gesto di carità 

Carissimi, ho bisogno di un vostro parere. Domenica 24 marzo avremo la messa animata dai bambini, durante la quale ci è chiesto di portare dei doni per l’offertorio. Vorrei invitare i bambini a regalare qualcosa di loro, per assaporare la gioia che viene dopo una rinuncia compiuta per amore. Pensate che sia possibile e opportuno chiedere di portare un loro giocattolo o un libro per dei bambini che non ne hanno? Dovrebbero sceglierlo loro stessi con il vostro consiglio. Se avanzare una proposta così impegnativa vi sembra troppo presto, vi prego di dirlo, così penseremo a qualcos’altro. 

Aggiunta della catechista. Genitori e bambini hanno aderito con entusiasmo alla proposta e hanno portato tanti bellissimi giocattoli, che sono stati dati alla Caritas parrocchiale per le famiglie povere. Indescrivibili la gioia e la festa. 

15 ottobre 20… L’adozione a distanza 

Carissimi genitori, oggi vi propongo un gesto meraviglioso di carità. Tutti conoscete Padre ………… e sapete che vive in Uganda, tra le tribù Karimojon, dove tanti genitori faticano a dare da mangiare ai loro bambini. Padre ……….. si è fatto per questo promotore di un progetto di adozioni a distanza: si tratta di aiutare un bambino o una bambina, inviando al missionario ogni tre mesi la modesta somma di euro 30, che il Padre trasformerà in cibo e rette scolastiche per i piccoli che avrete adottato. In cambio vi manderà regolarmente notizie e fotografie dei vostri bambini africani, così che i figli … italiani possano seguire la crescita dei “fratellini” che vivono lontani. Potrete leggere insieme le lettere che vi arriveranno e appendere nelle camere dei bimbi le loro fotografie. Questo è un modo magnifico per varcare mari e frontiere e insegnare ai bambini una fratellanza universale ariosa e appagante. E nel futuro … chissà? I nostri ragazzi potrebbero incontrarsi e, perché no, potrebbe essere l’aiutato a dare una mano agli aiutanti. Le vie del Signore sono misteriose e infinite, ma sempre bellissime e sorprendenti. 
Naturalmente nell’aderire o meno alla proposta dovete sentirvi assolutamente liberi: per questo non ne ho parlato ai bambini. Chi vorrà accogliere il suggerimento, coglierà anche la gioia unica di veder sbocciare la felicità dei figli e di vederli nel tempo diventare più maturi e responsabili. 

I messaggi scelti tracciano un percorso graduale di avviamento alla carità, che chiede anche rinuncia e sacrificio. S’incomincia con due belle esperienze: la passeggiata nei boschi e la spesa di Avvento. Sono così gratificanti da giustificare da sole il soldino sottratto al salvadanaio (rinuncia non indolore per i bambini, che di solito custodiscono con cura il loro gruzzoletto, contandolo spesso e magari accarezzando l’idea di un acquisto importante, come ad esempio un costoso video game); l’aiuto dato ai poveri è qui una specie di valore aggiunto, ma può costituire l’inizio di una bella scoperta. 
Il secondo passo consiste nel rinunciare a un regalo per sé, allo scopo di donare qualcosa di bello ai genitori. Anche questo gesto è abbastanza facile, sebbene un po’ meno del precedente, perché l’amore per mamma e papà rende gioiosa la rinuncia. 
La terza esperienza è già più difficile, perché i bambini sono chiamati a dare qualcosa di proprio e di amato a qualcuno che non conoscono e non conosceranno mai. Ci sono bimbi che scelgono di regalare giochi che non usano più e altri che invece si lanciano nella generosità e decidono di donare giocattoli o libri che userebbero ancora. Naturalmente il catechista accetta tutte le scelte, chiedendo soltanto che i regali siano in buono stato, per rispetto verso chi li riceverà. L’ultimo gesto, le adozioni a distanza, è naturalmente il più impegnativo: è un’azione che chiede continuità e durata e quindi va decisa con calma e libertà. 
Inutile ricordare che queste esperienze sono rese preziose e convenienti, sul piano educativo, dalla presenza e dall’impegno di tutta la famiglia. Come ben sappiamo, ciò che viene appreso in famiglia si fissa molto più facilmente nell’immaginario e nella memoria emotiva e cognitiva dei bambini, rispetto a ciò che si apprende all’interno di altre agenzie educative. Tutti conosciamo inoltre la forza trascinante dell’esempio parentale. 
La forma linguistica disegna lo stile dei messaggi: sono incoraggianti, espressi con gentilezza, intrisi di apprezzamento per l’operato dei genitori, carichi di calore umano e di affetto e soprattutto mai impositivi, ma sempre presentati come inviti e suggerimenti. Quanto al canale, i messaggi mostrati sono stati inviati attraverso WhatsApp, per arrivare a tutti in tempo reale, ma nulla vieta di scegliere altri strumenti e mezzi. Se il gruppo è numericamente contenuto, ad esempio, potrebbe essere possibile incontrare i genitori di persona o convocarli a gruppetti, oppure telefonare ad ognuno: la prossimità degli sguardi e degli abbracci è sempre importante. In genere, per comodità s’incomincia con WhatsApp e poi si aprono naturalmente i canali personali. L’esperienza insegna che questi messaggi non disturbano e vengono letti volentieri; inoltre non obbligano a una risposta, anche se spesso i genitori sono invogliati a rispondere alle comunicazioni altrui. 
Proviamoci amici catechisti, come stiamo provando con la preghiera in famiglia!

Note
[1]Vedi ad esempio, tra i tanti contributi on line: S. Di Febo, https://disegnoinfantile.it›il-bambino-che-disegna-la-casa o psicologia- bambini.blogspot.com›2014/05 › il-disegno-della-casa 
[2] G. Moioli, Temi cristiani maggiori, Gribaudi, 1973, pp. 17 e 18. 
[3] A proposito della preghiera in famiglia, l’arcidiocesi di Milano propone un laboratorio per catechiste, una relazione interattiva per genitori, una relazione scritta e un’appendice (M. Tettamanti, Pregare in famiglia, in Servizio per la catechesi, Arcidiocesi di Milano, Comunità e famiglia generano nella fede, Centro ambrosiano). 
[4] G. Moioli, op. cit. p. 18. 
[5]Amoris laetitia (AL), nn. 91 e 92. 
[6] AL, nn. 93 e 94 
[7] AL n. 321 
[8] AL n. 95. 
[9] Ibidem 
[10] AL n. 315 
[11] AL nn. 97 e 98. 
[12] AL n. 99. 
[13] AL n. 100 
[14] AL nn. 101 e 102. 
[15] AL nn. 103 e 104. 
[16] AL nn. da 105 a 107. 
[17] AL n. 108. 
[18] AL nn. 108 e 110. 
[19] AL nn. da 111 a 113 
[20] Molti studi hanno rilevato gli effetti negativi di un’assenza di fiducia nella prima infanzia: vedi ad esempio Erikson e Spitz. Per un approfondimento dell’argomento dal punto di vista religioso, vedi G. Gillini e M. Zattoni, Parlare di Dio ai bambini, Queriniana, 1997, pp. 47 ss. 
[21] AL nn. 114 e 115. 
[22] AL n. 323 
[23] AL nn. 116 e 117. 
[24] Al n. 118. 
[25]In realtà, una versione analoga del racconto, ambientata però in un convento, è stata scritta da Bruno Ferrero in Quaranta storie nel deserto,pubblicato da LDC nel 1992 e ripreso in un blog da Paulo Coelho. Nel web non manca chi lo attribuisce direttamente a quest’ultimo. Stando alla tempistica, la stesura del racconto rimasta nella mia memoria dovrebbe quindi essere l’originale. 
[26] AL n. 316. 
[27] AL n. 187. 
[28] AL n. 198. 
[29] AL n. 223. 
[30] AL n. 181. 
[31] AL n. 324. 
[32] AL n. 183. 
[33] AL n. 197. 
[34] Testimonianza di Laura Monteleone. 
[35] AL n. 179. 
[36] AL n. 324.

Mariarosa Tettamanti 

Immagine di copertina tratta da Características de la uva Nebbiolo di Jesus Antonio Criado Gasque