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Per la loro felicità



Perché mandare mio figlio a Messa? Seconda lettera dei catechisti ai genitori.
Per la proposta sintetica vedi il post "Pedagogia eucaristica"

N.B. Come la prima lettera (Quelle marce in più) anche questa è molto lunga e può essere eventualmente spezzata in vari momenti, oppure usata in uno o più incontri con i genitori su questo tema.

Carissima mamma e carissimo papà,

questa è la seconda lettera con la quale cerco di rispondere alla domanda che ci siamo posti: “Perché dovrei mandare mio figlio a Messa?”. La prima risposta ce la siamo già data: “Perché nessuna esperienza educa tutte le dimensioni della personalità dei nostri bimbi quanto la celebrazione eucaristica”. E vi ho già annunciato anche la seconda risposta: “Perché siano felici”.
Si tratta allora di capire quale sia il legame che unisce la Messa alla felicità. Eccolo, è presto detto: il salto dalla Messa alla felicità passa attraverso la fede. "L'Eucaristia dà occhi di fede" scrisse il teologo Rousselot. La frequenza alla celebrazione eucaristica, cioè, presuppone la fede, ma contemporaneamente l'aumenta e la educa, in modo misterioso ma reale. Si tratta di quella fede che tu hai voluto per i tuoi figli, quando hai chiesto per loro il Battesimo: non è una realtà da dimostrare ma da vivere. 
Fino a qui credo che tutto sia chiaro e anche che siamo d'accordo, ma che cosa c’entra la fede con la felicità? E prima ancora: che cos’è la felicità?

La felicità nell’esperienza umana

Dal punto di vista psicologico, noi possiamo descrivere la felicità come un’emozione primaria, cioè una sindrome reattiva per lo più scatenata da particolari situazioni attivanti, percepite e valutate intuitivamente come fonte di benessere, e costituita da risposte di tipo fisiologico, corporeo, mentale e comportamentale. (Definizione in buona parte attribuibile al Reisenzeim).
Questa definizione va completata con gli studi relativi alle neuroscienze, attraverso i quali si è scoperto che non si dà, nell’esperienza umana, una felicità che duri per sempre (vedi ad esempio il Klein): esistono invece momenti più o meno lunghi di felicità, provocati, a livello fisiologico, dal rilascio nell’organismo di particolari neuro trasmettitori, cioè sostanze chimiche prodotte dal cervello e capaci di svolgere un’attività analgesica ed eccitante simile a quella degli oppiacei. Queste sostanze sono dette anche “ormoni del benessere” o “droghe della felicità” e il loro rilascio è causato da particolari esperienze vissute come piacevoli e felicitanti. 
A  noi interessano soprattutto queste esperienze, raccolte anche attraverso indagini sociologiche (vedi ad esempio il Bradburn). Semplificando e sintetizzando, possiamo dividerle in quattro categorie: le buone relazioni (cioè una buona vita sociale); le attività interessanti, come ad esempio un lavoro che piaccia, ma anche ciò che permette di scoprire e apprendere cose nuove; la valorizzazione del sé attraverso le conferme altrui, ma anche mediante la possibilità di auto-determinarsi e di esercitare del potere; l’appagamento dei bisogni e dei desideri. Il reddito, cioè i soldi, c'entrano invece pochissimo con la felicità (tranne in caso di gravi difficoltà finanziarie).  

La felicità nel vissuto dei nostri ragazzi

Che cosa pensano i nostri figli della felicità? Quando si sentono felici?
Da una ricerca condotta dalla sottoscritta su più di duecento bambini della scuola primaria, emerge che i bimbi sperimentano la felicità come un’emozione positiva, derivante da esperienze piacevoli e contrapposta alla tristezza. La identificano in una sensazione di appagamento e di pace con sé stessi e con gli altri, che coincide semanticamente con la gioia, l’allegria, la contentezza, il divertimento e il buonumore, anche se qualche intervistato la fa confluire addirittura nei concetti di bene e di vita. La felicità provoca il sorriso, un’allegra eccitazione, una grande energia, la voglia di ridere, l’entusiasmo, i pensieri belli, una sensazione di leggerezza, la tranquillità, la vivacità e il rilassamento e attiva perfino la gentilezza, la generosità e l’amicizia.
Quanto alle situazioni scatenanti, i ragazzi mettono al primo posto le relazioni familiari e subito dopo il gioco con gli amici; seguono le attività piacevoli svolte individualmente (play station, video games…), l’avverarsi dei desideri e infine le gratificazioni personali (soprattutto ricevere dei regali).

Sono evidenti, in queste risposte, alcuni tratti specifici:
1. la coincidenza, più o meno precisa, delle stesse situazioni attivanti segnalate dalle ricerche sociologiche e neuro-scientifiche;
2. il primato delle relazioni interpersonali;
3. la coincidenza/confusione tra gioia (o felicità) e benessere;
4. l’alto numero di voci riferibili ai beni di consumo, al successo personale e al divertimento.

Esiste una felicità che non sia occasionale e duri tutta la vita?

Purtroppo, come ben sappiamo e continuamente sperimentiamo, tutte le esperienze felicitanti sono sottoposte alla dura legge dell’assuefazione: ciò che rende felice oggi a lungo andare non darà più la stessa gioia. Perfino le situazioni più entusiasmanti, come l’innamoramento, sono solitamente destinate a finire e un grosso dolore può sempre prendere il posto di una grande felicità. Questo vale soprattutto per l’appagamento dei desideri: il senso di benessere che viene dal possesso di qualcosa che desideriamo intensamente dura in genere molto poco, perché subito dopo s’incomincia a desiderare dell’altro. Per questo il filosofo Petrosino dice che l'oggetto del desiderio è un idolo, destinato a deludere.

Una domanda allora è d’obbligo: proprio non esiste una felicità che non sia occasionale e di breve durata? I ragazzi solitamente pensano che esista e la vedono incarnata nell’esistenza di alcuni modelli a cui vorrebbero assomigliare: sono i campioni sportivi (più della metà dei ragazzi intervistati), soprattutto i calciatori, e i personaggi della televisione (cantanti, attrici, ballerine, attori comici: quasi il 40% degli intervistati); il 7% sceglie un’astronauta e il restante 3% circa si divide tra due youtuber, le maestre, due fotografi famosi, una modella, uno scrittore, un super eroe e un medico. Nessun genitore. Un solo bambino sceglie Gesù.
Come sappiamo e abbiamo visto, secondo la scienza, invece, tale felicità non esiste, ma è vero che la stessa risposta ci viene dall’esperienza, anche indiretta, e cioè relativa ai personaggi ammirati dai ragazzi, che non sempre sono felici (anzi!). 

D’altra parte, la nostra stessa vita ci dice che la felicità compresa soltanto come benessere (procurata dall’istinto che orienta i desideri e mette in moto la volontà) non basta. In essa è presente infatti un’incrinatura, un’ambiguità, in quanto spesso la rincorsa per raggiungerla comporta la fatica di rispondere ai momenti in cui si oscura. Se la persona che amo si ammala, ad esempio, sarà più bello rimanere al suo capezzale invece di andare al cinema: in questo caso il concetto di felicità chiede una nuova valutazione o un approfondimento destinati a provocare una curvatura del pensiero e dell’esperienza. 

Ma il grande ostacolo al desiderio di essere felici, lo sappiamo tutti molto bene, è la morte, cioè quella fine che chiuderà ogni possibilità di continuare a vivere nella gioia. La paura che un giorno il bello della vita finirà non può non togliere felicità alle giornate dell’uomo. Dalla morte non si scappa nemmeno con la smemoratezza o l’accettazione dell’auto-illusione. Il discorso come si vede è serio.
Come uscirne allora? È possibile essere felici nonostante la legge dell’assuefazione e gli ostacoli alla felicità?
Occorre ovviamente interrogare la vita, bisogna interpellare persone diverse. E lo facciamo partendo da due testi.

Primo testo: Dio è morto

"Dio è morto. Stando così le cose, si deve avere l’onestà di non vivere più come se Dio vivesse. Si è regolata la questione con lui: resta da regolarla con noi. Adesso siamo avvertiti. Se non conosciamo la misura esatta della nostra vita, sappiamo che sarà piccola, che sarà una vita piccolissima. Per alcuni l’infelicità occuperà tutto il posto. Per altri la felicità ne occuperà più o meno. Non sarà mai una grande infelicità o una grande felicità perché sarà tutta contenuta nella nostra piccolissima vita. L’infelicità grande, indiscutibile (… ) è la morte. È davanti ad essa che dobbiamo diventare realisti (… ) pratici. Dico “diventare”. Io mi stupisco della generale mancanza di buonsenso (…) I rivoluzionari m’interessano, però hanno capito male il problema: essi possono ordinare il mondo nel miglior modo possibile (…) occorrerà comunque sgomberare! Gli scienziati sono un po’ bambini: credono sempre di uccidere la morte, invece uccidono soltanto i modi di morire: la rabbia, il vaiolo… La morte, lei, sta benissimo. Ho molta simpatia per i pacifisti, ma sono deboli nel calcolo. Se nel 1914 fossero riusciti a mettere la museruola alla guerra, tutti coloro che la guerra non avesse ucciso sarebbero stati definitivamente sistemati nei loro cimiteri personali alla data 1998. La gente per bene mi sbalordisce per la sua sicurezza: manca di modestia. Sono sicuri di lavorare per la felicità degli altri. È perlomeno discutibile. Più la vita è buona, più è duro morire. La prova: la gente si ammazza da sé quando viene ammazzata la loro ragione di vivere. Gli innamorati sono radicalmente illogici e poco inclini a ragionare: “Ti amerò per sempre”. Non vogliono prendere coscienza del fatto che saranno necessariamente infedeli; e che questa infedeltà si avvicina ogni giorno di un giorno (… ) senza contare la vecchiaia, questa morte a rate. (…) Le madri, poverette, faticano a non dire, a non fare follie: “Il mio bambino (…) vorrei tanto che fosse felice (…)”. Sarebbero capaci d’inventare la felicità pur di poterla dare al proprio bambino (…) ma andate a raccontar loro che mettono al mondo carne da morte (…) Poi ci sono coloro che si divertono, che ammazzano il tempo aspettando che il tempo ammazzi loro (…) Io sono tra questi (… ) Ah, ma intanto non è stata liquidata la successione di Dio! Egli ha lasciato dappertutto ipoteche d’eternità, di potenza, di anima (…) E chi è stato l’erede? (…) La morte (…) Egli durava: non c’è più che lei a durare. Egli poteva tutto: la morte viene a capo di tutto e di tutti. Egli era Spirito: non ne so troppo di quel che sia, ma lei è dappertutto, invisibile, efficace; dà un piccolo colpo e, toc, l’amore cessa d’amare, il pensiero di pensare, un bimbo di ridere (…) non c’è più niente (…). “Siamo tutti vicini alla sola autentica sventura: abbiamo o non abbiamo il fegato di dircelo? Dirlo? E con che? Anche le parole Dio s’è portato via. Si può dire a un morente, senza mancare di tatto,”buongiorno” o “buonasera”? Allora gli si dice Arrivederci” (…) finché non si sarà imparato il modo di dire”a non vederci più in nessun luogo” (…) “al nulla assoluto”.

Secondo testo: L’estasi delle sue volontà

"Noi siamo tutti dei predestinati all’estasi, 
tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi
per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani (Signore).
Noi non siamo mai dei poveretti lasciati a far numero,
ma dei felici eletti,
chiamati a sapere ciò che vuoi fare,
chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante,
da noi.
Persone che ti sono un poco necessarie,
persone i cui gesti ti mancherebbero,
se rifiutassero di farli.
Il gomitolo di cotone da rammendare, la lettera da
scrivere, il bambino da alzare, il marito da rasserenare,
la porta da aprire, il microfono da staccare,
l’emicrania da sopportare:
altrettanti trampolini per l’estasi,
altrettanti ponti per passare dalla nostra povera,
cattiva volontà
alla riva gioiosa del tuo Bene."

Due testi antitetici

Com’è evidente, il tema per ambedue i testi è la felicità: per il primo autore essa non è possibile, per il secondo non solo è possibile, ma è in grado di trasformare tutte le cose, rendendo “estatica” ogni esperienza umana. I due testi presentano quindi tesi opposte: nel primo caso l’unica realtà di cui l’uomo è sicuro è la morte, per cui non c’è nulla di grande nella vita, nulla di bello, nulla che meriti di essere vissuto; nel secondo caso al contrario tutto è bello, buono e grande, perché svolto collaborando con Dio.
Invitati a rispondere ad alcune domande per indovinare delle informazioni relative alla vita degli autori dei due testi, centinaia di ascoltatori hanno tracciato due profili antitetici: uomo il primo, donna la seconda; anziano il primo, giovane la seconda; il primo filosofo (spesso nietzschiano), la seconda casalinga; laureato il primo, appena diplomata la seconda; senza famiglia il primo, con famiglia la seconda e così via.
In realtà, l’autore del secondo testo è Madeleine Delbrel, una signora francese nata agli inizi del secolo scorso e vissuta in mezzo a difficoltà di tutti i tipi (malattie e morte dei famigliari, guerre, persecuzioni…) eppure felice, completamente felice. Ma volete sapere chi è l’autore del primo testo, quello tutto intriso di disperazione, quello che parla solo di morte? È ancora Madeleine Delbrel, ma tanti anni prima, quando era molto giovane (19 anni!) e dalla vita aveva tutto: amici, soldi, divertimenti, cultura, fidanzato… Aveva tutto, ma non sapeva dare un senso alle sue giornate e si chiedeva perché vivere se l’approdo finale era comunque per tutti la morte. Tra i due scritti è poi successo qualcosa che ha spezzato la sua vita in due parti, gettandola su sponde opposte e creando un prima e un dopo irreversibili: Madeleine si è convertita. Ha conosciuto Gesù attraverso l’incontro con alcuni amici che parlavano di Lui come di una persona reale e sempre presente. Non potendo dare dei visionari ad amici intelligenti e colti quanto lei, fu costretta a togliere Dio dai territori dell’assurdo in cui l’aveva relegato per inserirlo nel regno del possibile. Subito dopo decise di cercarlo nella preghiera, dove scoprì che Lui in realtà l’aveva già trovata e amata da sempre e dove lei imparò a conoscere e amare sé stessa, realizzandosi pienamente. Da allora la felicità, quella vera, non l’abbandonò mai più. Si trattava di una gioia donata, data per Grazia, e nessuno e niente avrebbero potuto eliminarla, perché si ridestava ogni mattina con lei. Era una felicità fatta di convinzione intima e radicata, era acqua sorgiva fatta di pace e di speranza. Gesù insegnò a Madeleine che non poteva accontentarsi delle gioie e del benessere provvisorio, del divertimento fine a sé stesso, ma poteva e doveva pretendere infinitamente di più, cioè l’Assoluto. La sua rinuncia alla vita, dichiarata nella lettera scritta a 19 anni, era in realtà l’espressione di un potente desiderio di vivere al quale ora finalmente Dio dava compimento. Per questo la sua gioia non aveva più bisogno di motivazioni e poteva bastare un’emicrania vissuta con amore per vivere una consolazione che la manteneva stabile nella felicità: la gioia insomma era per lei diventata una dimensione intrinsecamente legata alla vita, era la vita stessa. Potremmo dire che i neuro trasmettitori della felicità in Madeleine erano continuamente in attività!
Come lei ci sono tante altre persone le cui esistenze si sottraggono alle certezze della scienza e dell’esperienza umana, perché attingono alla libertà dei percorsi personali lungo le rotte dell’Infinito. Sono le vite dei santi e soprattutto dei convertiti come Madeleine, gli esperti dell’Essenziale, gli specialisti della felicità. Da Paolo di Tarso a Pascal, da Rimbaud a Paul Claudel, da Charles de Foucauld ad André Frossard, essi testimoniano la scoperta di una felicità duratura, racchiusa nello scrigno di una fede scoperta e poi vissuta. Mediante il racconto della loro vita, attraversata dalla spaccatura rivoluzionaria dell’incontro con Dio, essi disegnano, con la forza della “sperimentazione”, l’incredibile passaggio dalla disperazione alla felicità. A questo proposito, in una lettera del 1949, Madeleine Delbrel scrive al suo parroco:

"Bisogna aver toccato il fondo della morte che ci sta intorno in tutto quello che fa il nostro amore umano: devastazioni del tempo, della fragilità universale, dei lutti, decomposizione del tempo, di tutti i valori, dei gruppi umani, di noi stessi. Bisogna aver tastato, all’altro polo, l’universo impenetrabile della sicurezza di Dio per percepire un tale orrore del buio che la luce evangelica ci diventa più necessaria del pane."
Con la forza della concretezza i convertiti e i santi ci assicurano che è possibile essere felici per sempre, anche in mezzo alle difficoltà e persino nel dolore, e noi non abbiamo ragione di dubitare della loro parola, perché è stata ed è continuamente soppesata nel crogiuolo della vita.

E chi vive nella fede fin da bambino, dove troverà lo snodo per un salto qualitativo, che immetta con impeto la felicità nella vita? Si tratterà di scoprire, alla sequela di Gesù, una felicità che non sarà più soltanto un’emozione, ma diventerà uno stato di vita.

Ad esempio la morte, il più grande ostacolo alla felicità, come abbiamo detto: “È necessario che io me ne vada” disse Gesù (Gv 16,7); è necessario che anche noi ce ne andiamo, accettando questa rottura dell'esistenza, per infilarci nella più grande e vera apertura alla felicità e cioè alla relazione senza più veli né limiti con il Padre della Vita. (C. Magnoli)
La felicità in senso cristiano dice all’uomo: “Scendi sotto la superficie del tuo desiderio e troverai la porta della fede attraverso la quale incontrerai un te stesso e un desiderio che ora non conosci. Scoprirai che ciò che ti fa felice è ciò che tocca la parte di te in cui abita Dio”. In questo senso la gioia cristiana è ambi-valente: svela chi è l’uomo svelando chi è il Dio di cui l’uomo è immagine. Per accoglierla occorre andare al di là dei piaceri sensibili e delle gioie immediate, senza rinunciarvi e senza negarli, ma collocandoli come mezzi in vista di un fine ultimo più grande: le nostre piccole gioie, allora, collegate alla grande felicità che ci dà Gesù, si dilateranno fino a dimenticare i loro confini e perdersi nella beatitudine. E capiterà allora che paradossalmente chi vive, come la Delbrel, nelle situazioni più difficili potrà più facilmente di altri vivere la paternità e l’amore di Dio che rendono possibile una vita da figli, una vita di felicità. 
La novità della felicità cristiana consiste nella sua capacità di trasformare il dolore in luogo di gioia, le tenebre in luogo di luce, la sofferenza in linguaggio d’amore che dà pace. (A. Cozzi)

Il dilatarsi degli indicatori umani di felicità

Quegli indicatori umani di felicità, che abbiamo individuato sulla base dei neuro trasmettitori e dell’esperienza dei ragazzi, in questo programma di felicità cristiana, si dispiegano e si potenziano. Vediamoli ad uno ad uno.

Le buone relazioni

La fede dilata i nostri rapporti fino alla misura dell’orizzonte disegnato e continuamente ridisegnato dall’incontro trasformante con Gesù nell’Eucaristia, orizzonte che fa esplodere il divino nell’umano, dando novità e slancio straordinari alle relazioni con gli altri, i quali diventano realmente nostri fratelli, portandoci così ben oltre l’intensità degli stessi legami familiari e amicali.

Le attività interessanti

Che cosa interessa a un cristiano? Con un senso di esaltazione positiva e realistica potremmo dire con Madeleine Delbrel: “Tutto”. Per chi crede infatti tutto ciò che fa ha le dimensioni dell’infinito, perché viene svolto in profonda unione con Dio, il quale imprime il marchio dell’immensità alle deboli azioni umane. Questo non potrà che far amare i propri impegni, slegando nel contempo dalla schiavitù della ricerca spasmodica dei risultati e comunicando la volontà di fare sempre meglio, non per ambizione, ma perché dentro le azioni stesse circola una forza misteriosa ma reale, che non viene soltanto dal soggetto che in quel momento sta operando.

La valorizzazione di sé e l’auto-realizzazione

Il mito dell’auto-realizzazione rischia di diventare per molte persone un imperativo schiavizzante, così come il desiderio di essere gratificati può tradursi in una dipendenza angosciante dai giudizi del prossimo. Il cristiano non corre simili pericoli: egli guarda a sé stesso con gli occhi di Dio, che lo trova sempre estremamente amabile, e in questo Amore e libertà costruisce un sano affetto per sé stesso, ben lontano da derive narcisistiche di qualsiasi genere. Nel vivere la misericordia di Dio, egli trova la serena realizzazione e il pieno sviluppo di ogni sua capacità.

L’appagamento dei desideri

Spesso l’uomo contemporaneo spezzetta sé stesso in una miriade di desideri mutuati più dal confronto con gli altri e dai miti del benessere che non dalle istanze profonde del suo cuore. Il dono della fede unifica i desideri, senza negarli, in uno solo: il bisogno che il Regno di Dio venga, nella certezza che con il suo avvento ogni smania sarà spianata e ogni sete sarà colmata. Questo è anche il desiderio di Gesù, che ci ha insegnato a chiederne l’avverarsi nella preghiera del “Padre nostro”, e questa consapevolezza non può che comunicare gioia e serenità. Non bisogna allora temere di desiderare molto, anzi in maniera smisurata, perché è proprio una gioia senza misura quella che vuole darci il Signore: la felicità è di questa vita! (R. Martinelli).

Ma se le cose stanno così, ha senso che dei genitori, sempre tesi alla ricerca della felicità per i figli, non facciano tutto il possibile per facilitare il loro cammino nella fede, attraverso la frequenza costante alla celebrazione eucaristica? Ecco, forse ho delineato una meta più che tracciare una strada o dimostrare una verità, ma ti assicuro, carissima mamma e carissimo papà, che arrivare a vivere così è possibile e tu puoi regalare a tuo figlio l'opportunità di essere felice proprio in questo modo. Davvero te la senti di non provarci, togliendogli questa possibilità?*
Sempre con la massima stima e l'affetto più grande
tua Mariarosa

*Una versione più lunga e completa di questo discorso si trova nel post Benvenuta felicità

Immagine di copertina tratta da Children di Elmira Eskandari.