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Benvenuta felicità


Alla scuola di Gesù è possibile imparare ad essere felici
Traccia per una riflessione dei catechisti con i genitori

Molti dei nostri genitori, pur mandando i figli alla catechesi, non sono praticanti: senza pensarci molto, vi è in essi la diffusa convinzione della non rilevanza di Dio per la vita e per la felicità propria e dei propri cari. E' allora opportuno provocare la loro riflessione, insinuando dei dubbi circa la non importanza  di Dio per una vita piena e felice. 

Obiettivo generale della conversazione che segue è condurre i genitori a scoprire il segreto e la fonte della vera felicità (cioè le Beatitudini) per “educare” se stessi e i propri figli ad essere felici. Ovviamente ogni catechista sceglierà e utilizzerà ciò che è più adatto alla situazione dei genitori dei propri bambini.

 
1. Incominciamo con la lettura di due testi molto diversi tra loro, dei quali scopriremo gli autori solo più avanti.

1.1 Primo testo: Dio è morto 

"…Dio è morto. Stando così le cose, si deve avere l’onestà di non vivere più come se Dio vivesse. Si è regolata la questione con lui: resta da regolarla con noi. 
Adesso siamo avvertiti. Se non conosciamo la misura esatta della nostra vita, sappiamo che sarà piccola, che sarà un vita piccolissima. Per alcuni l’infelicità occuperà tutto il posto. Per altri la felicità ne occuperà più o meno. Non sarà mai una grande infelicità o una grande felicità perché sarà tutta contenuta nella nostra piccolissima vita. L’infelicità grande, indiscutibile (… ) è la morte. È davanti ad essa che dobbiamo diventare realisti (… ) pratici. Dico “diventare”. Io mi stupisco della generale mancanza di buonsenso (…) I rivoluzionari m’interessano, però hanno capito male il problema: essi possono ordinare il mondo nel miglior modo possibile (…) Occorrerà comunque sgomberare! Gli scienziati sono un po’ bambini: credono sempre di uccidere la morte, invece uccidono soltanto i modi di morire: la rabbia, il vaiolo. La morte, lei, sta benissimo. Ho molta simpatia per i pacifisti, ma sono deboli nel calcolo. Se nel 1914 fossero riusciti a mettere la museruola alla guerra, tutti coloro che la guerra non avesse ucciso sarebbero stati definitivamente sistemati nei loro cimiteri personali alla data 1998. La gente per bene mi sbalordisce per la sua sicurezza: manca di modestia. Sono sicuri di lavorare per la felicità degli altri. È perlomeno discutibile. Più la vita è buona, più è duro morire. La prova: la gente si ammazza da sé quando viene ammazzata la loro ragione di vivere. Gli innamorati sono radicalmente illogici e poco inclini a ragionare: “Ti amerò per sempre”. Non vogliono prendere coscienza del fatto che saranno necessariamente infedeli; e che questa infedeltà si avvicina ogni giorno di un giorno (… ) senza contare la vecchiaia, questa morte a rate. (…) Le madri, poverette, faticano a non dire, a non fare follie: “Il mio bambino (…) vorrei tanto che fosse felice (…)”. Sarebbero capaci d’inventare la felicità pur di poterla dare al proprio bambino (…) ma andate a raccontar loro che mettono al mondo carne da morte (…) Io non voglio avere figli. (…) 
Poi ci sono coloro che si divertono, che ammazzano il tempo aspettando che il tempo ammazzi loro (…) Io sono tra questi (… ) Le persone serie ci disprezzano in nome delle loro occupazioni serie. Ah, ma intanto non è stata liquidata la successione di Dio! Egli ha lasciato dappertutto ipoteche d’eternità, di potenza, di anima (…) E chi è stato l’erede? (…) la morte (…) Egli durava: non c’è più che lei a durare. Egli poteva tutto: la morte viene a capo di tutto e di tutti. Egli era Spirito: non ne so troppo di quel che sia, ma lei è dappertutto, invisibile, efficace; dà un piccolo colpo e, toc, l’amore cessa d’amare, il pensiero di pensare, un bimbo di ridere (…) non c’è più niente(…). 
“Siamo tutti vicini alla sola autentica sventura: abbiamo o non abbiamo il fegato di dircelo? Dirlo? E con che?Anche le parole Dio s’è portato via. Si può dire a un morente, senza mancare di tatto,”buongiorno” o “buonasera”? Allora gli si dice Arrivederci” (…) finché non si sarà imparato il modo di dire”a non vederci più in nessun luogo” (…) “al nulla assoluto”. 

1.2 Secondo testo: L’estasi delle sue volontà 

"Noi siamo tutti dei predestinati all’estasi, 
tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi 
per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani (Signore). 
Noi non siamo mai dei poveretti lasciati a far numero, 
ma dei felici eletti, 
chiamati a sapere ciò che vuoi fare, 
chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante, 
da noi. 
Persone che ti sono un poco necessarie, 
persone i cui gesti ti mancherebbero, 
se rifiutassero di farli. 
Il gomitolo di cotone da rammendare, la lettera da 
scrivere, il bambino da alzare, il marito da rasserenare, 
la porta da aprire, il microfono da staccare, 
l’emicrania da sopportare: 
altrettanti trampolini per l’estasi, 
altrettanti ponti per passare dalla nostra povera, 
cattiva volontà 
alla riva gioiosa del tuo Bene." 

Due testi antitetici

Come si vede, i due testi presentano tesi opposte: nel primo caso l’unica realtà di cui l’uomo è sicuro è la morte, per cui non c’è nulla di grande nella vita, nulla di bello, nulla che meriti di essere vissuto; nel secondo caso al contrario tutto è bello, buono e grande, perché svolto collaborando con Dio, e la felicità è addirittura chiamata estasi. Invitati a rispondere ad alcune domande per indovinare delle informazioni relative alla vita degli autori dei due testi, centinaia di ascoltatori hanno tracciato due profili antitetici: uomo il primo, donna la seconda; anziano il primo, giovane la seconda; il primo filosofo (spesso nietzschiano), la seconda casalinga; laureato il primo, appena diplomata la seconda; senza famiglia il primo, con famiglia la seconda e così via. Il tema per ambedue i testi è la felicità: per il primo autore essa non è possibile, per il secondo non solo è possibile, ma è in grado di trasformare tutte le cose, rendendo “estatica” ogni esperienza umana. 

2 - La felicità nell’esperienza umana 

Ma che cos’è la felicità? Dal punto di vista psicologico, la possiamo descrivere come un’emozione primaria, cioè una sindrome reattiva per lo più scatenata da particolari situazioni attivanti, percepite e valutate intuitivamente come fonte di benessere, e costituita da risposte di tipo fisiologico (o comunque corporeo), mentale e comportamentale.[1]
Tale definizione va ovviamente completata con gli studi relativi alle neuroscienze, attraverso le quali si è scoperto che non si dà, nell’esperienza umana, una felicità che duri per sempre[2]: esistono invece momenti più o meno lunghi di felicità, provocati, a livello fisiologico, dal rilascio nell’organismo di neuro trasmettitori, come la dopamina, la serotonina, l’ossitocina e le endorfine, sostanze chimiche prodotte dal cervello e capaci di svolgere un’attività analgesica ed eccitante simile a quella degli oppiacei. Esse sono dette anche “ormoni del benessere” o “droghe della felicità” e il loro rilascio è a sua volta causato da particolari esperienze vissute come piacevoli e felicitanti. Tra queste esperienze annoveriamo la risposta ai bisogni (la fame e la sete ad esempio), l’esposizione alla luce, il consumo di determinati cibi e profumi, l’esercizio fisico (come passeggiare) e sportivo, il ballo e il canto, l’ascolto musicale, il sorriso e il riso, ma anche il conseguimento di obiettivi prefissati (ad esempio quando si vince una partita o si supera un esame), la valorizzazione del sé (gratificazioni e regali), l’esercizio di un moderato potere e di attività piacevoli (un buon lavoro, la visione di film e di spettacoli teatrali e così via). Degne di nota sono soprattutto le attività collegate alle buone interazioni sociali e alle relazioni sane derivanti da legami forti, basati sull’intimità e la fiducia (conversazioni con gli amici, abbracci, carezze, baci, coccole …). I soldi invece non contribuiscono direttamente a dare felicità, perché, a parità di condizioni di salute e in situazioni economiche accettabili, non risulta esserci differenza nella percezione della felicità tra persone molto ricche e persone moderatamente benestanti. 
Semplificando e riassumendo ciò che abbiamo detto, possiamo dividere le esperienze che danno felicità in quattro categorie: le buone relazioni; le attività interessanti, come ad esempio un lavoro che piaccia; la valorizzazione del sé attraverso le conferme altrui, ma anche mediante la possibilità di auto-determinarsi; l’appagamento dei bisogni e dei desideri. 

2.1 La felicità nel vissuto dei nostri ragazzi 

Che cosa pensano i nostri figli della felicità? Quando si sentono felici? 
Anche loro come noi sperimentano la felicità come un’emozione positiva primaria, derivante da esperienze piacevoli e contrapposta alla tristezza. Essi la identificano in una sensazione di appagamento e di pace con se stessi e con gli altri, che coincide semanticamente con la gioia, l’allegria, la contentezza, il divertimento e il buonumore, anche se qualcuno la fa confluire addirittura nei concetti di bene e di vita. 
La felicità provoca il sorriso, un’allegra eccitazione, una grande energia, la voglia di ridere, l’entusiasmo, i pensieri belli, una sensazione di leggerezza, la tranquillità, la vivacità e il rilassamento e attiva perfino la gentilezza, la generosità e l’amicizia (“Se sto bene, sono più buono”). La si riconosce negli altri dalla bocca sorridente, dagli occhi che brillano e dai lineamenti distesi. 
Quanto alle situazioni scatenanti, esse vengono individuate in esperienze belle, desiderate o inaspettate: relazioni con gli amici; incontri con persone care che non si vedono da molto tempo; vita in famiglia; aiuto offerto e ricevuto; giochi, soprattutto collettivi; feste, specialmente per il compleanno e il Natale; vacanze; gite; successi nel gioco e riuscita nelle attività e negli apprendimenti scolastici; gratificazioni (come i bei voti); regali; acquisto di beni materiali; desideri e sogni che si avverano; consumo di dolci; preghiera. Chiamati a stabilire una graduatoria nelle loro motivazioni alla felicità, i ragazzi mettono al primo posto le relazioni famigliari (37,5%) e subito dopo il gioco con gli amici (29%); seguono le attività piacevoli svolte individualmente (play station, video games … 17%), l’avverarsi dei desideri (stare all’aria aperta, andare in vacanza, mangiare cibi che piacciono … 12,5%) e le gratificazioni personali (soprattutto ricevere dei regali: 4%). 
Anche qui possiamo raggruppare le risposte in quattro categorie: le buone relazioni, le attività piacevoli (prima di tutto il gioco, ma solo se collettivo), l’appagamento dei desideri, il successo e le gratificazioni. Sono evidenti, in queste risposte, alcuni tratti comuni: 
  1. la coincidenza, più o meno precisa, delle stesse situazioni attivanti segnalate dalle ricerche neuro-scientifiche
  2. il primato delle relazioni interpersonali;
  3. la coincidenza tra gioia e benessere e la confusione tra felicità e piacere; [3]
  4. la sovrapposizione di motivazioni diverse, per cui la letizia vissuta nella preghiera non è declinata diversamente dalla gioia avvertita mangiando dei dolci;
  5. l’alto numero di voci riferibili ai beni di consumo, al successo personale e al divertimento;
  6. il basso numero di voci riferibili alle esperienze spirituali, anche da parte di ragazzi che vanno volentieri al catechismo: i nostri bimbi sono figli del loro tempo e di ciò che viene quotidianamente detto dai media, per i quali sembra proprio che Dio non sia necessario alla felicità dell’uomo.
Le risposte comportamentali alle situazioni attivanti secondo i ragazzi sono per lo più finalizzate all’appropriazione, all’espressione e alla comunicazione dell’esperienza positiva che ha motivato la gioia: anticipare nel pensiero il momento bello, ripetere o prolungare l’esperienza, ripensare a ciò che è successo, comunicare agli altri la propria felicità, correre, saltare e canticchiare per manifestarla, festeggiare. Alcuni, appellandosi al senso di responsabilità, suggeriscono di svolgere bene il proprio dovere senza lamentarsi o di fare del bene e aiutare chi ha bisogno: se io sono contento, lavoro meglio e desidero fare in modo che anche gli altri siano felici. Altri infine avvertono che bisogna saper attendere e rimandare, perché non sempre si hanno a disposizione dei momenti belli, e che non si deve ripetere troppe volte l’esperienza piacevole, perché si rischia di abituarsi e non godere più[4]: questi ultimi mostrano di avere qualche consapevolezza del ruolo dell’assuefazione, che coinvolge e travolge ogni situazione umana di felicità. 
Appare allora evidente che, se si vuole insegnare a essere felici dal punto di vista umano, occorre muoversi almeno lungo quattro direttrici: 
  1. addestrare i bambini alle relazioni;
  2. aiutarli a scoprire interessi e capacità personali;
  3. educare i desideri;
  4. favorire un adeguato sviluppo dell’autostima.

2.2 I desideri 

Ci fermiamo soprattutto sui desideri, argomento più rilevante di quanto non possa sembrare a prima vista. Dietro la ricerca e il riconoscimento della felicità infatti ci sono sempre dei desideri, importanti perché ispirano le scelte e plasmano le abitudini, diventando dei segnali che misurano la qualità della vita. Senza desiderio non esiste nemmeno l’amore: ecco il motivo per cui nessuna azione educativa ha il diritto di negare o mortificare i sogni dei ragazzi; essa deve invece riconoscerli e apprezzarli, raccoglierli e orientarli, ma anche interpretarli e smascherarli, perché talvolta essi, mentre dicono una cosa, ne dichiarano clamorosamente un’altra: chi non ha conosciuto dei ragazzi che agiscono bruscamente e dicono convinti di “fregarsene” di tutti, mentre invece stanno solo gridando il loro bisogno di attenzione e di affetto? 
È dunque importante esplorare i desideri dei nostri ragazzi e comprenderne la gerarchia: ci sono desideri dominanti e altri secondari, alcuni stabili e altri variabili. Ci sono anche desideri malati di pigrizia (ad esempio quando si desidera soltanto stare sul divano a giocare con i video games), di sofferenza e di paura (talvolta, per fortuna molto raramente, i bambini che vivono situazioni familiari destabilizzanti o malattie molto gravi finiscono per non avere nemmeno più la forza di desiderare e diventano indifferenti, rinunciando così ad una buona qualità della vita). A volte i desideri, invece di essere dei buoni servitori, diventano dei padroni, dei tiranni che s’impadroniscono dell’esistenza: questo succede ad esempio quando il gioco del calcio diventa per certi maschietti il centro di ogni pensiero , capace d’ipotecare il futuro a scapito del presente ("Io diventerò un calciatore famoso e guadagnerò un sacco di soldi, non m’importa della scuola e dello studio"). 
Per questo insegneremo ai bambini a conoscere i propri desideri personali, a manifestarli, a passarli al vaglio dell’esperienza e della ragione, in una parola ad averne cura. Dal punto di vista esclusivamente umano, è fondamentale ad esempio abituarli ad accorgersi e gioire delle piccole cose e di ciò che già possiedono, a non desiderare per partito preso tutto ciò che vogliono e hanno i compagni, a difendersi dalla pubblicità, che s’incarica persino di decidere ciò che dobbiamo desiderare, ad alzare lo sguardo dai desideri narcisistici per vedere gli orizzonti dei bisogni altrui, ad aprirsi a progetti positivi per giungere all’avverarsi dei desideri migliori e così via. 

3 - Esiste una felicità che non sia occasionale e duri tutta la vita? 

Purtroppo, come ben sappiamo e continuamente sperimentiamo, tutte le esperienze felicitanti sono sottoposte alla dura legge dell’assuefazione: ciò che rende felice oggi a lungo andare non darà più la stessa gioia. Perfino le situazioni più entusiasmanti, come l’innamoramento, sono solitamente destinate a finire e un grosso dolore può sempre prendere il posto di una grande felicità o almeno stabilire pesanti ipoteche sulla possibilità di essere ancora felici. Questo vale soprattutto per l’appagamento dei desideri: il senso di benessere che viene dal possesso di qualcosa che desideriamo intensamente dura in genere molto poco, perché subito dopo s’incomincia a desiderare dell’altro. Una domanda allora è d’obbligo: proprio non esiste una felicità che non sia occasionale e di breve durata? 
I ragazzi solitamente pensano che essa esista e la vedono incarnata nell’esistenza di alcuni modelli a cui vorrebbero assomigliare: sono i campioni sportivi (più della metà dei ragazzi intervistati), soprattutto i calciatori (il 40% di chi ha scelto gli sportivi come modelli da imitare) e i personaggi della televisione (cantanti, attrici, ballerine, attori comici: quasi il 40% degli intervistati); il 7% sceglie un’astronauta (Samantha Cristoforetti) e il restante 3% circa si divide tra due youtuber, le maestre, due fotografi famosi, una modella, uno scrittore, un super eroe e un medico. Nessun genitore. Un solo bambino sceglie Gesù. 
Come sappiamo e abbiamo visto, secondo la scienza, invece, tale felicità non esiste, a meno di cercare continuamente i paradisi artificiali della droga, che però come sappiamo annullano la salute e la volontà. La stessa risposta ci viene dall’esperienza, anche indiretta e cioè relativa ai personaggi ammirati dai ragazzi, che non sempre sono felici (anzi!).
 
Occorre allora interrogare altre persone, ad esempio l’autore del secondo testo che abbiamo letto all'inizio del nostro discorso, per il quale tutto è felicità (persino sopportare il coniuge!) anzi tutto è estasi (quindi non solo felicità al quadrato, ma all’ennesima potenza). Si tratta di Madeleine Delbrel, una signora francese nata agli inizi del secolo scorso e vissuta in mezzo a difficoltà di tutti i tipi (malattie e morte dei famigliari, guerre, persecuzioni…) eppure felice, inspiegabilmente felice. Ma sapete chi è l’autore del primo testo, quello tutto intriso di disperazione, quello che parlava solo di morte? È ancora Madeleine Delbrel, ma tanti anni prima, quando era molto giovane (diciannove anni!) e dalla vita aveva tutto: amici, soldi (apparteneva a una famiglia atea e benestante), divertimenti, cultura … Aveva tutto, ma non sapeva dare un senso alle sue giornate e si chiedeva perché vivere se l’approdo finale era comunque per tutti la morte. Tra i due scritti è poi successo qualcosa che ha spezzato la sua vita in due parti, gettandola su sponde opposte e creando un prima e un dopo irreversibili: Madeleine si è convertita. Ha conosciuto Gesù attraverso l’incontro con alcuni amici che parlavano di Lui come di una persona reale e sempre presente. Non potendo dare dei visionari ad amici intelligenti e colti quanto lei, fu costretta a togliere Dio dai territori dell’assurdo in cui l’aveva relegato per inserirlo nel regno del possibile. Subito dopo decise di cercarlo nella preghiera, dove scoprì che Lui in realtà l’aveva già trovata e amata da sempre e dove lei imparò a conoscere e amare se stessa nella verità, realizzandosi pienamente. L’Amore di cui si sentì circondata e avvolta la lanciò nel dono di sé agli altri e da allora la felicità, quella vera, non l’abbandonò mai più. Si trattava di una gioia donata, data per Grazia, e nessuno e niente avrebbero potuto eliminarla, perché si ridestava ogni mattina con lei. Era una felicità fatta di convinzione intima e radicata, era acqua sorgiva fatta di pace e di speranza. Gesù insegnò a Madeleine che non poteva accontentarsi delle gioie e del benessere provvisorio, del divertimento fine a se stesso, ma poteva e doveva pretendere infinitamente di più, cioè l’Assoluto: la sua rinuncia alla vita, dichiarata nella lettera scritta a diciannove anni, era in realtà l’espressione di un potente desiderio di vivere al quale ora finalmente Dio dava compimento. Per questo la sua gioia non aveva più bisogno di motivazioni e poteva bastare un’emicrania vissuta con amore per vivere una consolazione che la manteneva stabile nella felicità: la gioia insomma era per lei diventata una dimensione intrinsecamente legata alla vita, era la vita stessa. Potremmo dire che i neuro trasmettitori della felicità in Madeleine erano continuamente in attività! 
Come lei ci sono tante altre persone le cui esistenze si sottraggono alle certezze della scienza e dell’esperienza umana, perché attingono alla libertà dei percorsi personali lungo le rotte dell’Infinito. Sono le vite dei santi e soprattutto dei convertiti come Madeleine, gli esperti dell’Essenziale, gli specialisti del vero segreto della felicità. Da Paolo di Tarso a Pascal, da Rimbaud a Paul Claudel, da Charles de Foucauld ad André Frossard, essi testimoniano la scoperta di una felicità duratura racchiusa nello scrigno di una fede scoperta e poi vissuta. Si tratta di una letizia che è evento cristologico, partecipazione alla gioia del Signore e alla sua Pasqua. 
Scrive ad esempio Paul Claudel: 
"Ecco com’era il giovane infelice che il 25 dicembre 1886 si recò a Notre Dame di Parigi per assistere all’ufficio di natale. Cominciavo allora a scrivere e mi sembrava che nelle cerimonie cattoliche, considerate con superiore dilettantismo, avrei trovato uno stimolo opportuno e la materia per qualche esercizio decadente. In queste condizioni, urtando a gomitate la folla, assistetti alla messa solenne con poco piacere. Poi, non avendo nient’altro da fare, tornai al pomeriggio per i vespri … Io ero in piedi tra la folla, vicino al secondo pilastro rispetto all’ingresso del coro, a destra, dalla parte della sacrestia. In quel momento capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti. Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, con una certezza che non lasciava nessuna specie di dubbio che, dopo di allora, nessun ragionamento, nessuna circostanza della mia vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede né toccarla … Cercando, come ho fatto spesso, di ricostruire i momenti che seguirono quell’istante straordinario, ritrovo gli elementi seguenti che, tuttavia, formavano un solo lampo, un’arma sola di cui si serviva la Provvidenza per giungere e finalmente aprire il cuore di un povero figlio disperato: come sono felici le persone che credono! Ma era vero? Era proprio vero! Dio esiste, è qui. È qualcuno, un essere personale come me! Mi ama, mi chiama. Le lacrime e i singulti erano spuntati, mentre l’emozione era accresciuta ancor più dalla tenera melodia dell’Adeste fideles. La stessa sera di quel memorabile giorno vissuto a Notre Dame – dopo essere rientrato a casa attraverso le vie piovose che mi sembravano del tutto estranee – presi una Bibbia protestante che un’amica tedesca aveva regalato a mia sorella Camilla e, per la prima volta, intesi l’accento della voce così dolce e così inflessibile che non ha più cessato di risuonare nel mio cuore. (… ). È vero – lo confesso con il centurione - sì, Gesù era il figlio di Dio. Era a me, Paul, che egli si rivolgeva e mi prometteva il suo amore. Ma, nello stesso tempo, se non lo seguivo, mi lasciava la dannazione come unica alternativa. Ah non aveva bisogno che mi si spiegasse che cosa era l’inferno: vi avevo trascorso la mia stagione. Quelle poche ore mi erano bastate per farmi capire che l’inferno è dovunque non c’è Cristo. Che me ne importava del resto del mondo davanti a quest’essere nuovo e prodigioso che mi si era svelato?”[5]
Come ci mostra Claudel, i convertiti, mediante il racconto della loro vita, attraversata dalla spaccatura rivoluzionaria dell’incontro con Dio, disegnano, con la forza della “sperimentazione”, l’incredibile passaggio dalla disperazione alla felicità. A questo proposito, in una lettera del 1949, Madeleine Delbrel scrive al suo parroco: 
"Bisogna aver toccato il fondo della morte che ci sta intorno in tutto quello che fa il nostro amore umano: devastazioni del tempo, della fragilità universale, dei lutti, decomposizione del tempo, di tutti i valori, dei gruppi umani, di noi stessi. Bisogna aver tastato, all’altro polo, l’universo impenetrabile della sicurezza di Dio per percepire un tale orrore del buio che la luce evangelica ci diventa più necessaria del pane. (…)."[6]

Con la forza della concretezza i convertiti e i santi ci assicurano dunque che è possibile essere felici per sempre, anche in mezzo alle difficoltà e persino nel dolore, e noi non abbiamo ragione di dubitare della loro parola, perché è stata ed è continuamente soppesata nel crogiuolo della vita. 
E chi vive nella fede fin da bambino, dove troverà lo snodo per un salto qualitativo, che immetta con impeto la felicità nella vita? Si tratterà di scoprire, alla sequela di Gesù, una felicità promessa e data, la quale, poiché non è più soltanto un’emozione, ma diventa uno stato di vita, deve cambiare anche il nome: essa si chiamerà, come il Vangelo insegna, beatitudine. Ci si accorgerà allora che gli indicatori di felicità evidenziati dai neuro trasmettitori ci saranno ancora, certamente, ma saranno informati alla sapienza e alla vita di Gesù: anche Lui infatti ha gioito per le buone relazioni, per il suo lavoro e la predicazione, per chi seguiva le sue parole, per le piccole gioie che la vita gli offriva … 
Da questo momento in poi, abbandoneremo pertanto il significato ambiguo del termine “felicità” per assumere e usare soltanto quello indicato da Gesù con la parola “beatitudine”. 

4 - Le Beatitudini 

Il “programma di felicità” che Gesù ha in serbo per noi è infatti contenuto nelle Beatitudini, ma chi vi si accosta deve prima fare i conti con le anti-beatitudini, cioè con i messaggi che una certa parte del mondo d’oggi manda agli uomini e alle donne del nostro tempo, messaggio che risulta antitetico rispetto a quello evangelico. Vediamo prima il testo di Matteo, che riporta le beatitudini di Gesù, e poi cerchiamo di attualizzarlo e rovesciarlo nel programma inverso che il mondo ci propone. 

4.1 Dal Vangelo di Matteo

"Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. 
Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: 
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli. 
Beati gli afflitti,
perché saranno consolati. 
Beati i miti,
perché erediteranno la terra. 
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati. 
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia. 
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio. 
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio. 
Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli. 
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi." 

Com’è subito chiaro, questa “carta della felicità” secondo Gesù è un capovolgimento radicale dei valori mondani, un ribaltamento di prospettiva senza possibilità di fraintendimenti. In realtà le beatitudini sono la legge del Regno di Dio, declinata nella forma della felicità: una legge che coincide con un progetto di felicità! Prima ancora, però, le Beatitudini sono Vangelo, cioè dono della buona notizia … altrimenti sarebbero soltanto esigenze nobili e difficili: senza il dono dello Spirito, saremmo di fronte ad un’ideologia forse sublime, ma sicuramente impossibile e disperante. Invece Gesù, non solo dice, ma dà ciò che dice: la sua parola ha il potere di renderci nuovi. 

4.2 Le anti-beatitudini e i desideri di Dio 

L’anti-beatitudine, ovvero le beatitudini del mondo. 

Beati coloro che sono ricchi e appagati 
e coloro che sanno accumulare denaro con ogni mezzo; 
essi non hanno bisogno di nessuno e 
riescono ad avere tutto ciò che vogliono: 
benessere e spensieratezza, sicurezza e impunità, 
adulazione e stima … 

Beati quelli che amano solo se stessi 
e sanno godere di ogni piacere lecito ed illecito, 
perché si vive una volta sola 
e bisogna saper cogliere ogni attimo di gioia. 

Beati i prepotenti, 
perché riescono sempre ad avere ragione e 
beati quelli che non si decidono mai 
e non si schierano da nessuna parte, 
perché non rischiano di compromettersi e di sbagliare. 

Beati quelli che sono capaci d’imbrogliare e di sfruttare, 
di trarre profitto dalle disgrazie altrui, 
di schiacciare i deboli a loro vantaggio, 
perché diventeranno ricchi senza troppa fatica. 

Beati i vendicativi 
e quelli che non dimenticano le offese, 
perché non si lasciano mettere sotto i piedi da nessuno 
e sanno come farsi rispettare. 

Beato chi sta bene, 
chi sa badare a se stesso e pensa solo ai suoi, 
chi è insensibile al dolore del mondo, 
chi sa accaparrarsi i primi posti, 
chi è capace di mentire 
ed è in grado di cavarsela tra gli uomini e nella vita. 

Beati i fabbricanti di armi, 
perché hanno scoperto un modo veloce e sicuro 
per accumulare denaro, 
e beati i potenti, 
perché possono cambiare le leggi a loro piacimento 
e secondo il loro tornaconto. 

Beati gli uomini di successo, 
i calciatori e le ballerine, 
i manager rampanti e i trafficanti senza scrupoli, 
gli arrivati e gli arrivisti … 

Beati coloro che appaiono e si sentono realizzati, 
coloro che godono di considerazione, 
che sono magnificati, 
onorati, elogiati, preferiti, approvati, raccomandati, famosi: 
essi possono rallegrarsi ed esultare, 
perché la loro vita è facile e ricca di soddisfazioni. 

Le beatitudini secondo Gesù, cioè i desideri di Dio per noi

Io vorrei, dice Dio, 
che tu sia povero di spirito 
e che abbia bisogno soltanto di me, 
perché possa colmarti di gioia 
e liberare in te il respiro della mia Parola. 

Vorrei, dice Dio, 
che tu soffra con me per i mali del mondo, 
perché desidero abbracciarti e consolarti 
restando vicino a te. 

Desidero che tu cerchi di superare 
ogni odio e ogni divisione, 
perché voglio aprire i tuoi orizzonti 
e insegnarti a danzare la vita … 
fino a quando abiterai nella Terra 
in cui chiaro e senz’ombra splende il mio volto. 

Desidero che tu abbia sete e fame della vera giustizia, 
perché ho per te nutrimento e acqua viva 
e l’incandescente novità della mia tenerezza. 

Vorrei che tu abbia bisogno del mio perdono, 
perché voglio farti conoscere 
l’infinita grandezza della mia misericordia. 

Desidero che tu abbia un cuore puro, 
consegnato all’Amore, 
capace di percepire il dilatarsi delle piccole gioie, 
perché nel mio sguardo tu possa scorgere la tua grandezza 
e nell’intimità tu mi veda e conosca i miei segreti. 

Voglio che tu viva e lotti per la pace, 
sui sentieri tracciati dalla mia Sapienza, 
così che io possa visitarti al mattino 
e abitare la tua solitudine. 

Voglio che tu non abbia paura di percorrere 
le aspre vie della fede, 
che non ti arrenda al giudizio del mondo, 
che tu sappia con la vita narrare 
le meraviglie del mio Vangelo, 
perché la gioia e la festa si rincorrano 
sulle strade del tuo Paese. 

Dammi, dice Dio, 
la tua allegria e la tua esultanza, 
fiamme alte d’Amore, 
lampi di luce nel buio, 
rifugio dolce e sicuro, 
specchio scintillante e festoso della mia Santità. 

È chiaro che, per vivere le Beatitudini, il concetto di felicità com’è inteso nella prima colonna dev’essere completamente scardinato e capovolto: la differenza tra i due stili di vita non potrebbe essere più abissale. Ma, come abbiamo più volte detto, anche la felicità compresa soltanto come benessere, sia pure ottenuto con mezzi leciti, non basta. Ciò che la procura è la sequela dell’istinto umano, che orienta i desideri e mette in moto la volontà. Già in questa scelta è però presente un’incrinatura, un’ambiguità: ci si accorge ben presto infatti che spesso la rincorsa alla felicità in quanto benessere a 360 gradi comporta la fatica di rispondere ai momenti in cui questo stesso benessere si oscura. Se la persona che amo si ammala, ad esempio, sarà più bello rimanere al suo capezzale invece di andare al cinema: in questo caso il concetto di felicità chiede una nuova valutazione o un approfondimento destinati a provocare una curvatura del pensiero e dell’esperienza. È d’obbligo chiedersi allora se questo ostacolo che si presenta non invitato sia davvero soltanto un blocco al benessere oppure possa diventare una diversa porta di accesso alla vera gioia. Se per un bambino la vincita di una partita è un potente motivo di gioia, come si potrà porre nei confronti della possibilità di perdere? Se non l’accetterà, rifiuterà di varcare la soglia che potrebbe portarlo proprio all’esultanza della vittoria. 
Ma il grande ostacolo al desiderio di essere contenti, lo sappiamo tutti molto bene e ce lo ha ricordato con forza Madeleine, è la morte, cioè quella fine che chiuderà ogni possibilità di continuare a vivere nella gioia. La paura che un giorno il bello della vita finirà non può non togliere felicità alle giornate dell’uomo. Dalla morte non si scappa nemmeno con la smemoratezza o l’accettazione dell’auto-illusione: perché essa diventi apertura alla felicità, bisogna scoprire che nulla è bello e appagante come la relazione con Dio. “È necessario che io me ne vada” disse Gesù (Gv 16,7): è necessario che anche noi ce ne andiamo, accettando questa rottura della vita, per infilarci nella più grande e vera apertura alla felicità e cioè alla relazione senza più veli né limiti con il Padre della Vita. 
Ecco perché ogni beatitudine tiene insieme due livelli di discorso, introducendo una tensione tra presente e futuro: “Beati i poveri in spirito” sì, ma “perché di essi è il Regno dei cieli”. “Perché vedranno Dio, perché saranno consolati, saranno chiamati figli di Dio …”. L’amore di Dio genera nel mondo una sorta di campo gravitazionale che attrae l’uomo, lo precede e lo coinvolge, invitandolo a entrare in comunione con Lui: in questo modo il presente offre anticipi della gioia futura. 
Le beatitudini dicono all’uomo distratto dalla ricerca del benessere: “Scendi sotto la superficie del tuo desiderio e troverai una porta molto più vicina a te, attraverso la quale incontrerai un te stesso e un desiderio che ora non conosci. Scoprirai che ciò che ti fa felice è ciò che tocca la parte di te in cui abita Dio”. 
In questo senso le Beatitudini sono ambi-valenti: svelano chi è l’uomo svelando chi è il Dio di cui l’uomo è immagine. Il Vangelo fa scoprire se stessi sotto il profilo antropologico, ma poi esonda e travalica e la dinamica conoscitiva diventa dinamica esperienziale nel momento in cui ci si ritrova immersi nella felicità che dura. Per accoglierla occorre andare al di là dei piaceri sensibili e delle gioie immediate, senza rinunciarvi e negarli ovviamente, ma collocandoli come mezzi in vista di un fine ultimo più grande: le nostre piccole gioie, allora, collegate alla grande felicità che ci dà Gesù, si dilateranno fino a perdere i loro confini e perdersi nella beatitudine. E capita allora che paradossalmente, come abbiamo visto, chi vive come la Delbrel nelle situazioni più difficili (povertà, persecuzioni, ingiustizie, guerre, emarginazione, dubbi e sofferenze di ogni tipo) potrà più facilmente di altri vivere la paternità e l’amore di Dio che rendono possibile una vita da figli, una vita di felicità. 

Il grande segreto del giusto, secondo il Vangelo, sta in questa conoscenza del volto paterno di Dio, sul quale il Cristo ha aperto il sipario.[7]. 
La novità della felicità cristiana consiste nella sua capacità di trasformare il dolore in luogo di gioia, le tenebre in luogo di luce, la sofferenza in linguaggio d’amore che dà pace.[8]. 

Ecco perché possiamo dire che le Beatitudini sono canto e provocazione, sorgente e trasfigurazione del presente, ma anche squarcio sul futuro; sono l’arte del gioire, il rovesciamento delle situazioni negative, il riflesso della gloria di Cristo nella povertà dell’umanità, la danza della vita e della fede della comunità del crocifisso che in lui tutto ha perso e in lui tutto ha guadagnato. 

4.3 Il dilatarsi degli indicatori umani di felicità 

All’interno delle Beatitudini, quegli indicatori umani di felicità, che abbiamo individuato sulla base dei neuro trasmettitori e dell’esperienza dei ragazzi, si dispiegano e si potenziano confluendo in un programma di trasfigurazione dell’umano nella conformazione a Gesù. 
Vediamoli ad uno ad uno. 

Le buone relazioni 

Il Vangelo dilata i nostri rapporti fino alla misura dell’orizzonte disegnato e continuamente ridisegnato dall’incontro trasformante con Gesù nell’Eucaristia, orizzonte che fa esplodere il divino nell’umano, dando novità e slancio straordinari alle relazioni con gli altri, i quali diventano realmente nostri fratelli, portandoci così ben oltre l’intensità delle stesse relazioni familiari e amicali. 

Le attività interessanti 

Che cosa interessa a un cristiano? Con un senso di esaltazione positiva e realistica potremmo dire con Madeleine Delbrel: “tutto”. Per chi crede infatti tutto ciò che fa, persino i lavori più noiosi e pesanti, ha le dimensioni dell’infinito, perché viene svolto in profonda unione con Dio, il quale imprime il marchio dell’immensità alle deboli azioni umane. Questo non potrà che far amare i propri impegni, slegando nel contempo dalla schiavitù della ricerca spasmodica dei risultati e comunicando la volontà di fare sempre meglio, non per ambizione, ma perché dentro le azioni stesse circola una forza misteriosa ma reale, che non viene soltanto dal soggetto che in quel momento sta operando. 

La valorizzazione di sé e l’auto-realizzazione 

Il mito dell’auto-realizzazione rischia di diventare per molte persone un imperativo schiavizzante, così come il desiderio di essere gratificati può tradursi in una dipendenza angosciante dai giudizi del prossimo. Il cristiano non corre simili pericoli: egli guarda a se stesso con gli occhi di Dio, che lo trova sempre estremamente amabile, e in questo Amore e libertà costruisce un sano affetto per se stesso, ben lontano da derive narcisistiche di qualsiasi genere. Nel vivere la misericordia di Dio, egli trova la serena realizzazione e il pieno sviluppo di ogni sua capacità. 

L’appagamento dei desideri 

Spesso l’uomo contemporaneo spezzetta se stesso in una miriade di desideri mutuati più dal confronto con gli altri e dai miti del benessere che non dalle istanze profonde del suo cuore. Il dono della fede unifica i desideri, senza negarli, in uno solo: il bisogno che il Regno di Dio venga, nella certezza che con il suo avvento ogni smania sarà spianata e ogni sete sarà colmata. Questo è anche il desiderio di Gesù, che ci ha insegnato a chiederne l’avverarsi nella preghiera, e questa consapevolezza non può che comunicare gioia e serenità. Per questo abitueremo i ragazzi ad ascoltare i desideri di Gesù, fino a trasformare i loro, condizionandoli a ciò che il Signore sceglie e vuole. [9] Non bisogna allora temere di desiderare molto, anzi in maniera smisurata, perché è proprio una gioia senza misura quella che vuole darci il Signore: la felicità è di questa vita! 
Ma se le cose stanno così, ha senso che dei genitori, sempre tesi alla ricerca della felicità per i figli, non facciano tutto il possibile per facilitare il loro cammino nella fede? L’annuncio delle beatitudini infatti può risuonare nei ragazzi dentro la loro ricerca di felicità, aprendoli ad una nuova visione della gioia cristiana che funziona come principio attivo e trasformativo: da una parte essa ha la forza d’inviare incontro all’altro nella forma della dedizione, dall’altra è in grado di trasformare il modo di vivere e le situazioni della vita.[10]

5 - Raccontare le Beatitudini ai figli 

Non possiamo nemmeno dimenticare che i ragazzi di dieci / undici anni non sono generalmente in grado di comprendere il discorso delle Beatitudini evangeliche senza una mediazione sapiente da parte dell’adulto. Essi infatti di solito non sono ancora in possesso di un pensiero operatorio formale completo e nemmeno di un lessico raffinato, che possano permettere di riflettere in astratto sullo spartito di una logica totalmente diversa rispetto a quella comunemente assorbita dalla società in cui vivono. 
Ma allora che cosa può fare concretamente un genitore di fronte a dei ragazzi non ancora abitati dal desiderio di Dio, soffocato da tante altre voglie? 
Sappiamo quanto le parole da sole non tocchino più i nostri ragazzi e non riescano ad essere incisive in termini educativi. Un ragazzino oggi dà ben poco tempo a un genitore perché quest’ultimo possa dimostrargli che ciò che ha da dire è interessante per lui e lo tocca da vicino. Bisogna provocare in lui un cambiamento, bisogna introdurlo a un apprendimento che sia motivo di conversione. Perché questo avvenga occorre trovare parole e gesti che sappiano interpellare il vissuto e parlare ai sentimenti, per costruire dei ponti tra le nostre parole e le loro emozioni, troppo spesso catturate da altre suggestioni. Se questo non succederà, avremo perso la porta di accesso al loro cuore. 
Per tutti questi motivi, è bene partire con loro dalla concretezza del vissuto di alcuni Santi, che sperimentarono nella loro carne il proclama di Gesù sulla felicità: è questa una delle belle scelte operate dal percorso catechistico della diocesi di Milano, scelta che registra l’arrivo del tempo nuovo in cui reintrodurre nella vita dei ragazzi la frequentazione di questi veri specialisti della felicità, che forse potrebbero affiancarsi o addirittura sostituire i modelli sportivi e televisivi scelti oggi dai ragazzi. 
Perché allora non incominciare, subito, da questa sera? Perché non popolare la famiglia con altre persone, altri esempi, storie, luoghi ed eventi che raccontino una gioia possibile e persino a portata di mano? [11]

6 - L’ultima parola a Madeleine 

Lasciamo che sia Madeleine Delbrel, che ci ha accompagnati in questa riflessione, a chiudere il nostro discorso raccontandoci la sua conversione. 
"La mia attenzione al reale (… ) mi condusse a cambiare quella che per me era diventata la questione fondamentale: “Come si conferma l’inesistenza di Dio?” in “Dio potrebbe esistere?”. Tra le due domande infatti era accaduto qualcosa: l’incontro con parecchi cristiani né più vecchi, né più stupidi, né più idealisti di me: cioè, che vivevano la mia stessa vita, discutevano quanto me, danzavano quanto me. (…) I miei compagni si sentivano a loro pieno agio in tutta la mia realtà; ma portavano con sé quella che io chiamavo “la loro realtà” e quale realtà! Parlavano di tutto, ma anche di Dio, che pareva essere ad essi indispensabile come l’aria (… ), mescolavano in tutte le discussioni, nei progetti e nei ricordi, parole, “idee”, messe a punto di Gesù Cristo. Cristo, avrebbero potuto invitarlo a sedersi, non sarebbe sembrato più vivo. (…) A forza d’incontrarli spesso per parecchi mesi onestamente non potevo più lasciare (…) Dio nell’assurdo. È stato allora che la mia questione si è trasformata (…) non essendo più Dio rigorosamente impossibile, non doveva essere trattato come certamente inesistente. Scelsi quello che mi sembrava tradurre meglio il mio cambiamento di prospettiva: decisi di pregare (…) Dopo, leggendo e riflettendo ho trovato Dio; ma pregando ho creduto che Dio mi trovasse e che egli è la realtà vivente, e che si può amarlo come si ama una persona." 
Ecco, noi catechisti vorremmo essere per voi e per i vostri figli ciò che gli amici di Madeleine furono per lei. 
Mariarosa Tettamanti
 
[1]Gli studi sulle emozioni sono incominciati con Darwin (1809 / 1892) e sono proseguiti nel secolo scorso fino ai nostri giorni attraverso l’apporto di molti ricercatori, tra cui il Reisenzeim (1983) del quale riportiamo in parte la definizione. Ricordiamo che oggi rivestono particolare importanza gli studi dello psicologo americano Daniel Goleman e, per ciò che riguarda l’Italia, del medico e psicoterapeuta Alberto Pellai. Vedi anche, in questo blog, il post intitolato I colori del cuore.
[2]Vedi a questo proposito S. Klein, filosofo e biofisico: La formula della felicità, Longanesi 2003. 
[3] Vedi Papa Francesco nell’Evangelii gaudium, al n. 
[4] Questi dati sono desunti da un progetto sulle emozioni attuato a partire dal 1999 e tuttora in corso nella Scuola statale di Beregazzo con Figliaro e Castelnuovo Bozzente (Como, diocesi di Milano). Rispetto al passato, i ragazzi di 10 anni sembrano attribuire maggiore importanza alle relazioni amicali che non a quelle familiari e apprezzano molto di più il gioco collettivo che non quello individuale. 
[5] P. Claudel, Ma conversion, in Euvres en prose, Paris, Gallimard, 1965, p. 1.009 ss. 
[6]“Celui qui me suit ne marche pas dans les ténèbres”: NA 79 (1948). 
[7]P. Tremolada, La regola di vita della comunità di Gesù. Un commento al Discorso della montagna, In dialogo, Milano 2005, pp. 16-17.  
[8]A. Cozzi, Il dono della felicità, in Chiodi – Cornati – Cozzi – Romanello, Beatitudine e benessere. Modelli conflittuali nella ricerca della felicità?, Glossa, Milano 2005, p. 99. 
[9] Vedi anche R. Martinelli (a cura di), Maestro, che cosa devo fare? , Seminario Arcivescovile di Milano, Venegono Inferiore. 
[10] Nel materiale on line della terza tappa del quarto anno dei percorsi catechistici della diocesi di Milano è possibile trovare un fascicoletto che presenta le figure di alcuni Santi con il linguaggio dei bambini.