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Gli ultimi nella Chiesa non sono gli ultimi



Gli ultimi nella Chiesa non sono i poveri, i malati, le persone disabili o i peccatori: a loro Gesù ha già dato il primo posto, che la Chiesa riconosce senza problemi. Gli ultimi nella Chiesa non sono gli ultimi, ma le ultime: le donne, già, ma alcune sono più ultime delle altre. Vediamo come e perché.

La struttura della Chiesa è gerarchica. Questo non è tanto un dato teologico quanto un dato di realtà, un dato di fatto. Non è mia intenzione pronunciarmi sull’opportunità di questo tipo di organizzazione: non ne ho le competenze e d’altra parte da parecchio tempo e da più parti, a cominciare dal Papa, si parla di sinodalità, certamente la soluzione più giusta, che salvaguarda da una parte la gerarchizzazione necessaria, credo, ad assicurare il buon governo della Chiesa, e dall’altra valorizza la presenza e le opinioni di tutti.

Una gerarchia non esplicitata

Ciò che m’importa considerare oggi è la gerarchia non esplicitata, ma vigente all’interno del popolo di Dio che vive nelle Chiese locali, in quei luoghi cioè in cui tutti dovremmo essere considerati alla stessa stregua. Dopo i preti e i diaconi permanenti, sui quali come ho detto non discutiamo, vengono, nei fatti, le seguenti categorie:
monaci e frati;
monache e suore (ma tra queste ultime la precedenza è data alle congregazioni diocesane);
laici consacrati in istituti secolari;
laiche consacrate in istituti secolari;
uomini giovani;
uomini sposati e padri;
uomini sposati;
uomini;
uomini separati o conviventi;
donne giovani;
donne sposate (o vedove) e madri;
donne sposate (o vedove);
donne separate o divorziate; donne zitelle.
Ecco le ultime nella Chiesa, quelle del tredicesimo o quattordicesimo posto: sono coloro che nella società civile si chiamano orgogliosamente single, ma che nella Chiesa continuano ad essere chiamate zitelle. Naturalmente questa graduatoria è opinabile e può fluttuare nel tempo, così come può cambiare da luogo a luogo, da parrocchia a parrocchia.  Si tratta inoltre di una gerarchizzazione non riflessa, non teorizzata e forse nemmeno consapevole da parte di chi la mette in atto: è piuttosto qualcosa che è "dentro" la cultura della Chiesa e non suscita più nessuna domanda. 

Chi sono? 

Ma chi sono queste poverette, guardate ancora oggi con malcelata derisione o tutt’al più con commiserazione? (Persino il Papa un paio di volte ne ha parlato con disprezzo, poi per fortuna ha smesso). 
Anche qui le categorie sono diverse. Molte di esse avrebbero voluto sposarsi ma non hanno trovato l’anima gemella e vivono una verginità fisica forzata, una castità imposta, non scelta; altre sono state mandate via, per i più disparati motivi, da conventi e istituti, nei quali hanno provato a dimorare; altre ancora si sono dovute allontanare da istituzioni amate, perché chiamate da urgenze familiari inderogabili. Tutte portano nel cuore una grande ferita e solo per questo, secondo la logica del Vangelo, dovrebbero essere amate e aiutate a trovare comunque la beatitudine alla quale sono chiamate, come ogni cristiano che si sente dire da Gesù: “Sono venuto perché abbiate in voi la gioia e la vostra gioia sia piena”. Invece vengono accusate di avere un brutto carattere ("Ecco perché nessuno l'ha voluta") e di essere acide, come il latte andato a male, che non serve più a nessuno. Di solito non è vero, lo dico perché ne ho conosciute molte, ma vorrei comunque vedere chiunque al loro posto: oltre alla sofferenza e al senso di frustrazione, devono sorbirsi anche il pregiudizio, condito con il disprezzo e la derisione, del prossimo. La loro affettività è continuamente mortificata, ma loro resistono e non accettano soluzioni di ripiego. Solo per questo meriterebbero la nostra incondizionata ammirazione, invece di sentirsi continuamente invitare a "mettersi a posto" in qualche congregazione.
Poi ci sono quelle che, pur avendo tutte le possibilità, non se la sentono proprio né di sposarsi né di consacrarsi in una istituzione. Magari hanno provato a fidanzarsi, ma si sono accorte che per loro non è possibile innamorarsi contemporaneamente di un uomo e del Signore; magari hanno compiuto un tratto di cammino in qualche congregazione o istituto, ma si sono sentite strette, fuori casa. Esse sentono insomma che nessuna delle due proposte fa per loro, aspirano a qualcosa di diverso… avvertono, in poche parole, una chiamata che mal si adatta con ciò che la Chiesa propone ufficialmente. L’esempio di Gesù è per loro lettera e legge. Alla fin fine Lui non ha costruito una famiglia e nemmeno è entrato in qualche gruppo istituzionale del suo tempo: si è accontentato di dodici amici (undici, pardon) sui quali ha fondato una Chiesa che non vide la luce durante la sua vita terrena. Ecco, queste donne vogliono vivere la sovrana libertà e la totale povertà di Gesù: bella, dolce e completa. Abbracciano i voti nel segreto del loro cuore, confrontandosi di solito con il confessore; verificano costantemente la loro vita sui criteri del Vangelo, si aggiornano nella professione e nelle vicende del mondo, non si sottraggono alle richieste della carità, sono paghe di essere profondamente innestate nella Chiesa. E trovano, in questo modo di vivere, la loro pace e la beatitudine (il centuplo) promessa a chi ha lasciato (seppure, in questo caso, in modo meno visibile dell'usuale) padre, madre, fratelli e sorelle per il Vangelo.

Spesso però...

Spesso però i preti  non le capiscono e le sollecitano a entrare in qualche istituto, o almeno in qualche movimento: “Insomma, non ti sei sposata, fai qualcosa”. E se c’è qualcosa di bello da fare sono le ultime ad essere chiamate, in parrocchia o in diocesi. Si utilizza il loro lavoro, certo, ma sempre sott’acqua, sempre in incognito, e ci si guarda bene dal dare loro qualsiasi forma di riconoscimento o di potere decisionale... come se ci si vergognasse di loro. Per loro non contano né il merito, né le competenze. Eppure soltanto una delle mirofore, per portare un esempio evangelico,  era mamma, delle altre due non si dice nulla… e per arrivare a conventi e istituzioni la Chiesa dovette allontanarsi molto nel tempo dagli avvenimenti del sepolcro. 
Ci fu anzi un tempo non tanto lontano in cui queste donne erano apprezzate e, guidate dai parroci, erano le “facenti funzioni” dei coadiutori che non c’erano. E le cose andavano sicuramente meglio di quanto vadano ora. Era il tempo in cui (parlo di qualche anno fa) non si aveva paura di affidare alle donne, almeno nelle parrocchie, incarichi importanti (ad esempio il coordinamento della catechesi parrocchiale), permettendo loro di acquisire una visibilità che non dava fastidio e nessuno e permetteva un'azione di apostolato ampia e incisiva.
Perché dunque questa attuale diffidenza da parte dei preti? Forse temono che queste povere signore non siano protette e non possano resistere a lungo nella solitudine e nella castità? Oppure pensano che solo in mano agli uomini (mariti o assistenti spirituali che siano) le donne possano sentirsi realizzate? Eppure viviamo in tempi in cui anche a noi è ampiamente riconosciuta la possibilità di vivere da sole, in totale autonomia. Non sarà allora  la paura di essere scavalcati nella popolarità a bloccare i preti che a loro volta bloccano le donne?

Due movimenti di novità?

Io a volte mi chiedo: -E se proprio questa fosse una delle novità di cui la Chiesa ha oggi bisogno? Se dietro a questi desideri ci fosse l’azione potente dello Spirito?
Sono due i movimenti di novità che mi pare di vedere nella Chiesa d’oggi: uno è questo, l’altro è la riscoperta della preghiera e della catechesi in famiglia, scoperta che ha trovato applicazione e approfondimento soprattutto durante il lockdown. In alcuni casi essa ha introdotto nelle famiglie una fede colma di domande, ma fresca, ricca di aspettative, calda di affetti e di speranze, che ha reso i genitori catechisti dei figli e i figli catechisti dei genitori, entrambi in ascolto incantato del Vangelo.
Ambedue le iniziative però trovano spesso l’incomprensione, per non dire l’ostilità, di una certa parte del clero. Mi piacerebbe tanto capire perché.

Mariarosa Tettamanti

Immagine di copertina tratta da Natura magica di Tatiana Tatarenok