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Vittima di abuso sconta la sua innocenza per tutta la vita


Oggi sono vittime ampiamente riconosciute e risarcite, ieri erano colpevoli, condannate al carcere a vita. 
In memoria e giustizia per Maria T.

Dicono che tutte le famiglie nascondano qualche scheletro nell’armadio. Anche la mia ne cela uno, ma io l’ho scoperto tardi, soprattutto perché il mobile che lo conteneva aveva un’anta trasparente e luminosa, che lasciava vedere qualcosa da esibire, non da nascondere. Attraverso questa vetrata colorata noi vedevamo una donna dolcissima, solo lavoro casa chiesa preghiera e cimitero, dedita completamente al Signore e a noi, mai con le mani in mano, totalmente povera (consegnava tutta la sua pensione a mio papà, suo fratello, e non chiese mai nulla che non si trovasse già sulla nostra modesta tavola, nulla per sé: né cibo, né vestiti, né cure mediche e nemmen
o una camera o un posticino riservato a lei). Quando si fermava dal lavoro, pregava con il libro aperto e la corona del rosario tra le mani, oppure muoveva rapidamente due piccole navette bianche creando pizzi leggeri che decoravano la nostra casa e l’altare: noi indossavamo sempre vestitini di seconda mano, ma le trine più belle erano le nostre. Non appena suonavano le campane, la zia lasciava ciò che stava facendo e correva in chiesa; per la strada camminava in fretta, a testa bassa; salutava tutti, ma non si fermava a parlare con nessuno. 
Di lei colpiva soprattutto il silenzio assoluto, rotto soltanto per consolare chi piangeva, per chiedere scusa se per sbaglio ci spruzzava con dell’acqua mentre lavava i piatti, per invitarci a recitare il rosario o per domandare qualche sporadica informazione su ciò che stava facendo. Persino noi, suoi nipoti, cercavamo invano di farla parlare. 
Per noi era un rifugio sicuro, una presenza tenera e rasserenante: ci rivolgevamo a lei per avere il grappolo d’uva che i nostri genitori ci negavano, o per sfuggire alle vendette dei compagni di gioco dopo un dispetto o un litigio. Ci abbracciava quando venivamo puniti e soffriva con noi. Aveva occhi che facevano pensare alle stelle e mani calde e leggere, esperte nell’accarezzare. Mi portava in chiesa con lei e inevitabilmente finivo per addormentarmi appoggiata al suo grembo. 
La zia comunicava una serenità sorgiva, una bellezza del vivere velata solo ogni tanto da un po’ di tristezza. Eppure io, che dormivo accanto al suo letto, nella stessa camera, la sentii talvolta lamentarsi e piangere: la cosa non mi turbò, pensavo che avesse gli incubi come uno dei miei fratellini.

Vox populi vox Dei

In paese la chiamavano la "Maria santa", dicevano che viveva come una claustrale ed era famosa anche nei dintorni. Le suore dell’asilo sostenevano che lei era di “edificazione” anche per loro e padre Baj del seminario di Venegono mi disse un giorno: “Ah sì... Tu sei la nipote della Santa”. Perfino il teologo spirituale Moioli, avendo dei dubbi su una "santa" un po' troppo esibita dai media, mi diede un giorno una sua biografia e mi invitò a chiedere alla zia di leggerla: io avrei dovuto acquisire il suo parere e riferirlo a lui. "Tra santi si riconoscono" disse. Assolsi al compito guardando le espressioni della zia mentre leggeva. (Siccome l'episodio riguarda anche un'altra persona, mi fermo qui: basti sapere che la mimica facciale della zia anticipò puntualmente il parere della Chiesa, che uscì tempo dopo). 
Mia zia si confessava tutte le settimane e il parroco don Carlo Colombo, suo confessore, la magnificava continuamente: mi diceva che affidava alla sua preghiera i casi più dolorosi e difficili, che praticamente non aveva peccati e mi disse anche che la sua confessione iniziava con la formula “Ho disgustato il Signore”. Io ridevo: come poteva aver disgustato il Signore una come lei? Quanto ai peccati, era chiarissimo che non ne commettesse: la sua vita trascorreva tutta sotto i nostri occhi ed era perfetta, senza un errore. Noi ne eravamo orgogliosi.

L'altra realtà

Sua mamma, la nostra nonna, era l’aedo ufficiale della famiglia e ci raccontava le storie del passato. Un giorno le chiesi: “Nonna, perché la zia Maria non parla mai?” “Una volta parlava” rispose "era brava, era la prima della classe, ma dopo, quando era ancora troppo piccola, è andata in convento per diventare suora e quando è tornata non parlava più”. “Perché è tornata a casa nonna? Perché non è rimasta in convento la zia?” “Perché si è ammalata di pleurite e le suore non la curavano. Stava molto male, è andata in fin di vita. Ho chiamato il dottore e mi ha detto: -Se la lasciate tornare in convento io non la curo più. Il parroco di allora, don Carlo Ceriana, però, credeva che era tornata a casa per capriccio e ci ha trattati malissimo. Ci ha fatto soffrire tanto. Ho sofferto di più per questa storia che per la morte di cinque figli. Poi il signor curato ha capito, ma intanto erano passati gli anni”. C'era nella spiegazione qualcosa che non mi convinceva, così sentii il bisogno di parlarne con il papà. “Lei voleva andare dalle suore del Cottolengo, per occuparsi dei poveri, invece il parroco l’ha mandata dalle suore dell’asilo e non si è trovata bene” mi disse. Questa era una spiegazione plausibile, ma non coincideva con quella della nonna e quindi qualcosa non quadrava. Incalzai il papà con le domande e mi arrivò un’altra risposta: “Le suore hanno fatto studiare da maestra d’asilo le sue compagne, ma non lei, e così si è offesa ed è tornata a casa”. No, questo chiarimento proprio non andava, non era da zia Maria offendersi per così poco. Lo capì anche il papà, che tentò un altro approccio: “Io credo che abbia visto qualcosa che non doveva vedere e così l’hanno mandata via perché non parlasse”. Capii che non ero ancora arrivata alla verità, ma che qualcosa di vero c’era: la zia era stata cacciata dal convento, non era tornata a casa di sua volontà. Provai una sorpresa dolorosa, affollata da domande senza risposta. 
Compresi perché, quando giocavo a impersonare la suora dell’asilo e mettevo un asciugamano in testa, mia mamma chiamava mio papà e gli diceva “Guarda tua figlia”: dall’espressione di lui si vedeva bene che non avrebbe mai voluto una figliola suora. E questo nonostante la sua fede, il suo fervore e il suo amore per la Chiesa. Imparai così a non mettermi più asciugamani in testa per fare la monaca per gioco.

La fine

Un giorno trovammo nel nostro sgabuzzino un disordine incredibile: c’erano taniche di benzina rovesciate e perfino una pesantissima saldatrice scaraventata a terra. Solo zia Maria era entrata nel locale, ma uno scricciolo come lei non poteva certo aver fatto un disastro del genere,  così pensammo a dei ladri di passaggio, anche se nella stanza non mancava nulla. Quanto a lei, non disse niente, però notammo che i suoi abiti odoravano di benzina.
Aveva 76 anni e poco dopo si ammalò: divenne tutta gialla e dovemmo portarla all’ospedale. La diagnosi fu impietosa: cancro al pancreas ad uno stadio avanzato. I medici tentarono di asportare una parte del tumore, ma riuscirono soltanto a farla soffrire di più. In un momento di tregua trovai il coraggio di chiederle perché avesse lasciato il convento, ma mi rispose con un diniego del capo e un improvviso intristirsi dello sguardo, che però un secondo dopo ritrovò l’abituale serenità. Nella notte dell’agonia soffrì moltissimo: perse il respiro a poco a poco, come un giustiziato con la garrota, ma non distolse un attimo gli occhi dal crocifisso appeso alla parete di fronte. Alla mattina arrivò il cappellano con la Comunione eucaristica e lei volle la particola consacrata. La ingoiò con grandissima fatica, mi guardò con due occhi che contenevano tutto il firmamento, riuscì persino a sorridere, mi disse esultante: “È qui”, trasse gli ultimi, faticosissimi respiri e morì. Aveva aspettato lo Sposo: era suo diritto entrare in Paradiso abbracciata a Lui, perché era stata sua per tutta la vita.

La verità

Dopo la sua morte, furono le suore a parlare. Incominciò una che era stata sua compagna di noviziato: disse che la Maria, cioè suor Raffaella, come era stata chiamata, era la migliore di tutte loro, era la più amata e veniva continuamente presentata come esempio da seguire, così quando se ne andò dal convento fu un grosso colpo per tutte. Qualche tempo dopo un’altra suora si lasciò sfuggire con mia sorella un giudizio inaspettato: “Poverina la vostra zia, lei era piccola, che cosa poteva sapere di certe cose? Era la superiora a dover essere punita, non lei”. E poi a poco a poco arrivò la verità: la zia era stata trovata in braccio alla madre badessa ed era stata scacciata per questo dal convento. Da questo punto in poi non posso che immaginare la vicenda, ricostruendola intorno  alle poche informazioni raccolte.
Suor Raffaella era la suora più docile e intelligente del convento, ma era anche molto ingenua. Soprattutto era la più giovane e sembrava anche più piccola di quanto non fosse. Era molto bella, con un visetto e una carnagione delicati, capelli folti e occhi luminosi… e fu così che una suora si innamorò di lei. Purtroppo si trattava della madre superiora e a lei non si poteva disubbidire.
Posso intuire che cosa passasse nel cuore di mia zia: la sorpresa, il disorientamento, il turbamento, 
il desiderio di compiacere la madre...  e poi lo schifo, la voglia di scappare, il senso di colpa che soffocava l'anima… ma anche il voto di obbedienza e la devozione verso la superiora, insieme alla paura di eventuali ritorsioni  da parte sua...   Venne scoperta e scoppiò lo scandalo. Possiamo supporre anche che cosa disse la badessa: era stata suor Raffaella a indurla in tentazione, a circuirla, a farla precipitare nel peccato; bisognava punirla e cacciarla, era indemoniata, era una ragazza perversa… Insomma tutto l’orrendo e abituale repertorio di falsità dei pedofili predatori. Ma era la superiora e, dati i tempi, venne creduta. Così Maria venne privata del suo abito e del suo nome da suora e chiusa per giorni in una cella fredda, dove si ammalò di pleurite. 

Che cosa ti hanno fatto zia? 

Prima abusata, poi crudelmente punita e additata come l’unica colpevole. E tu non hai parlato, ma ti sei lasciata mandare via come un agnellino, con le pesanti catene della tua punizione, anzi del tuo interminabile martirio: silenzio a vita, confessione settimanale aperta dalla dichiarazione raccapricciante di aver disgustato il Signore, un’esistenza da consumare tra casa e chiesa, senza mai uscire dal tuo paese, senza mai chiedere nulla, senza raccontare né difenderti, perfino forse la proibizione di entrare in qualche altra congregazione… e il tuo parroco convinto, almeno all'inizio, che la versione ufficiale del convento fosse quella giusta. Carcere a vita, anzi peggio del carcere: i prigionieri possono parlare tra loro.

Un capolavoro della Grazia

Ma il Signore, zia, il tuo Signore ha fatto di te un capolavoro della sua Grazia. Ti ha lasciata in una vita impossibile e profondamente ingiusta, certo, ma ti ha dato una serenità inalienabile e costante e quindici nipoti che ti hanno adorata. Con loro, con noi, hai comunicato senza parlare, sussurrando senza sussurri il valore della fede, che tutto sopporta e comprende. La punizione immeritata è diventata felicità nascosta, la vita che ti è stata imposta si è trasformata nell'esistenza più adatta a te e alla tua santità. Hai condiviso con il tuo Sposo l’esperienza dell’ingiustizia umana, provando ciò che disse prima di te santa Teresa di Lisieux: "Patire amando è la più pura delle gioie". E quel disordine strano nello sgabuzzino forse parla di una lotta durissima contro l’avversario, poco prima della tua ultima malattia e della morte.
Al tuo funerale la gente ha portato fiori bianchi, perché, si è detto, quella non era una cerimonia funebre, ma un matrimonio, e ancora oggi ci sono persone che vengono sulla tua tomba a chiedere una grazia, che spesso ottengono. Se dipendesse da me, ti nominerei patrona delle vittime di abusi di tutto il mondo e di ogni tempo.

Mariarosa

Immagine di copertina tratta da  Mather and daughter di Dung Ho.