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Le vostre pagliuzze, le nostre travi



Quando in una parrocchia arriva un parroco nuovo:
riflessioni sincere di donne innamorate della Chiesa e molto affezionate ai fratelli presbiteri.

Questo scritto vuole dare voce ad alcune correzioni fraterne mai esplicitate e ha uno scopo duplice: aiutare i parroci, che lo leggeranno e si ritroveranno in qualche descrizione, a prendere coscienza della situazione; sollecitare le donne ispiratrici di queste parole, perché parlino più spesso e senza paura, in contesti meno nascosti e più fraterni. Con le più sentite scuse verso i tanti parroci che non commettono gli errori elencati.

Scrive Virginia Wolf in Una stanza tutta per sé: “Ed è uno dei servigi che l’un sesso può rendere all’altro: descrivere quella macchia grande come uno scellino dietro la testa… che da soli non riusciamo mai a vedere”. Parafrasando il concetto in chiave evangelica potremmo sostituire la simbolica macchia con la pagliuzza che alberga nell’occhio dei fratelli e (naturalmente continuando a non dimenticare la trave inchiodata nel nostro, della quale parleremo in un’altra occasione) impegnarci nell’opera meritoria della correzione fraterna. È noto che nello scovare minutaglie noi donne siamo impareggiabili e per questo ho limitato la mia ricerca ai pareri espressi dal sesso gentile.

Ho raccolto pagliuzze

ai crocicchi delle strade, dove si formano i crocchi animati e animosi delle massaie, nei supermercati, nelle pasticcerie, ai tavoli delle mense, lungo i sentieri tra i parchi, tra le tombe dei cimiteri, nelle riunioni delle formatrici diocesane, nei ritiri e agli esercizi spirituali, e persino, ahimè, negli angoli bui delle chiese e delle sacrestie. Debitore di tanto interesse è l’operato dei nuovi parroci: i cambiamenti, si sa, trascinano con sé apprezzamenti e critiche, seminano ansie e timori, rendono incandescenti gli animi.

Si deve precisare che la grande maggioranza

dei nuovi arrivati è stata immediatamente beatificata e posta in anticipo sugli altari da una vox populi che non teme smentite, ma forse esiste una minoranza che cela nello sguardo interiore più di qualche pagliuzza… anche se, a onor del vero, si deve dire che ogni voce critica nei loro confronti è stata preceduta da un sincero “È bravissimo”, seguito dalla descrizione delle virtù, che obiettivamente sono comunque tante. Dalle descrizioni è inoltre evidente che i giovani parroci, più che essere colpevoli di chissà quali colpe, soffrono di difetti di percezione (e d’altra parte, siccome parliamo di occhi e quindi del senso della vista, la percezione non può non essere coinvolta).

Tra i disturbi rilevati

il più comune è la confusione tra comunità e feudo, dalla quale discende una serie di altri errori: la parrocchia di residenza diventa la sede del palazzo reale e il servizio si trasforma in potere, motivo per cui alcuni presbiteri si rivolgono ai parrocchiani come se fossero sudditi e dipendenti, anziché collaboratori, dividendoli in fedeli vassalli e volgo ribelle; i normali problemi di relazione diventano per loro reati di lesa maestà ed essi non trovano di meglio che  circondarsi di una piccola corte di amici filogovernativi, ai quali distribuire incarichi come se si trattasse di favori principeschi. 
Altri problemi sono rilevabili in alcune mancanze di chiarezza, ad esempio tra correzione fraterna e un… pluralismo di bastonate a coloro che hanno il torto di non piacere ai nuovi arrivati. A volte una visione offuscata confonde il bisogno di rinnovamento con la preferenza riservata a chi è più giovane e “fisicamente rappresentativo”, a scapito di persone “in età” magari più competenti e preparate, oppure affiora in una certa difficoltà a comprendere la differenza fra il desiderio di seguire i ragazzi e la golosità affettiva, che impone l’allontanamento di chiunque abbia qualche ascendente su di loro, o ancora in un’errata comprensione del confine che corre tra la valutazione positiva del lavoro compiuto e il trionfalismo, oltre che nell’equivoco tra umiltà e inadeguata autostima (quanti guai vengono da questo problema!). Talvolta è il non saper discernere tra l’esigenza di introdurre il nuovo e la paura del confronto con il vecchio a complicare le relazioni, o tra lo spiegare le proprie ragioni e l’essere auto referenziali. E infine, più perniciosa di tutte, ecco emergere la difficoltà a dipanare la nebbia che nasconde il confine impercettibile tra la volontà di Dio e la propria… ma su questo problema dovremmo interrogarci tutti.

Agli errori elencati devo aggiungere

alcune sviste dovute all’ingenuità. Si tratta, ad esempio, della fretta del cambiamento, che costringe le comunità a tappe forzate e rischia di buttare tra i rottami anche le buone esperienze (e le buone persone!) del passato, dell’allergia alle critiche (o addirittura dell’abitudine a “mettere davanti le mani” per soffocarle prima che nascano). C’è anche chi ascolta tutti ma decide da solo e chi si è specializzato nel negare le voci discordi tanto che, si dice, alcuni consigli pastorali si sono trasformati in conferenze stampa in cui più nessuno parla e tutti si limitano ad assentire gravemente. Oppure, ancora peggio, i consiglieri sfogano il malumore litigando tra loro senza che il mediatore intervenga, in ossequio all’antico precetto Divide et impera. (È ovvio che qui qualche parola di incoraggiamento e correzione andrebbe anche ai consiglieri, ma non essendo loro i primi destinatari di questo articolo rimandiamo alla prossima volta).

Da ultimo si ha la diffusa impressione

(impressione, badate bene, non certezza) di un inaspettato riaffacciarsi dal passato del vento clericalista e maschilista, vento del quale sarebbero vittime soprattutto le donne… ma non quelle che puliscono l’oratorio e si occupano in posizione sempre subordinata della catechesi, non quelle che si accontentano di fare le ministre straordinarie della Comunione eucaristica o pensano ai bambini più piccoli e ai vecchietti... Mi riferisco a quelle donne che avanzano la pretesa di conoscere un po’ le esigenze della comunità, e di poter per questo dare qualche consiglio, magari di aver studiato teologia e di poter dire nella Chiesa locale una parola al femminile.

È davvero così?

Veramente alcuni di voi, fratelli sacerdoti, pensano che dove arriviamo noi roviniamo tutto? Che siamo utili solo come discepole fedeli e mute e che siamo perfino un po’ pericolose? Chi ha ancora paura di Virginia Wolf?

Dovete sapere, fratelli preti

che noi veniamo da voi, non per ammirare una persona efficiente, ma per rubare la fede dalle vostre labbra, o meglio, per vedere un uomo che per fede ha giocato tutto su Dio e non ha bisogno di nient’altro, nemmeno del nostro affetto (che per altro avete, incondizionato). Noi infatti abbiamo l’esigenza di toccare con mano quanto sia possibile e bello avere fede.
Per questo più che la vostra umanità c’importa l’abbondante divinità di cui vi ha rivestito il sacramento dell’ordine e chiediamo che il punto di luce che contempliamo in voi sia puro rimando alla bellezza di Dio. Non ci stiamo a far parte di un osannante gineceo personale, vogliamo essere arruolate come apostole per il Regno. Se qualche sacerdote si giocasse solo nell’uso del potere, o nell’auto-celebrazione di chi non scende mai dal pinnacolo del tempio, perderebbe la partita della sua vita e noi perderemmo il campionato. Animo, dunque, fratelli: armiamoci con la pinzetta dell’umiltà, guardiamoci nello specchio della divina umanità di Gesù, che non ha cercato il consenso e la gloria personale, e proviamo a estirpare travi e pagliuzze, noi e voi, insieme.

Mariarosa T. e amiche

Una risposta e una contro-risposta

Mi sono divertito nel leggere come hai usato le pagliuzze per pungere noi parroci. Mi ritrovo in tante cose che dici; siamo così noi uomini del sacro, del potere, del comando, alle volte malati di visibilità, di protagonismo, di certezze, di ragioni indiscutibili. Certo, poi abbiamo anche tratti di simpatia, di cordialità, di educazione, di affabilità, mostriamo doti alle volte inusuali di ascolto, di comprensione; manifestiamo atteggiamenti di misericordia, di perdono, di forza interiore. Siamo uomini anzitutto. Se posso fare un appunto, a me stona un po’ la frase: "Per questo non c’interessa più di tanto la vostra umanità, c’importa di più l’abbondante divinità di cui vi ha rivestito il sacramento dell’ordine", nel senso che è proprio la nostra umanità (che racchiude tutta la nostra fragilità) che è stata rivestita dalla divinità e quindi va amata anche lei per quella che è. Magari ho frainteso io la cosa, non avertene a male. Non volevo correggere certo quanto hai scritto.
Grazie di questi richiami; sono un bellissimo esame di coscienza anche per me che festeggio il primo anno di presenza nella mia nuova parrocchia. Mi aiutano a ripercorrere il cammino fatto e a correggere il tiro.
Don ...

Che meraviglia

un prete che si mette in discussione con semplicità e leggerezza, che argomenta senza andare in crisi, che ammette di poter sbagliare! Grazie! Sono molto d'accordo sulle doti che garbatamente mi ricordi e, quanto alla vostra umanità, credimi, l'amiamo anche troppo, perché è vero che molti di voi sanno davvero farsi voler bene. Tuttavia non bisogna dimenticare che su questa umanità, ricca o fragile che sia, il Signore scrive con lettere di fuoco e quando vi mette in mano il pane e il vino per farne la salvezza del mondo, quando vi dà il potere (questo sì, indicibile potere) di trascinare nientemeno che Lui, sull'altare e in mezzo a noi, o di dare il suo perdono, la vostra umanità è trasfigurata, è altra cosa. È per questo che certe prese di posizione di preti che vogliono essere riconosciuti, considerati, obbediti mi stupiscono grandemente: che cosa può volere un prete più di questa considerazione smisurata che Dio ha di lui? Che cosa possono importare i giudizi degli uomini? Ecco, è questo che non capisco. E questo è anche il significato della frase che ho scritto: l'umanità è interessante, ma la stima di cui Dio vi circonda è il vero segreto del vostro fascino. Anche un prete bruttarello e non troppo... aquila è una concretezza di miracolo che cammina tra noi. Non dovete mai buttare via la consapevolezza, non di ciò che umanamente siete, ma di ciò che umanamente siete diventati con l'ordinazione sacerdotale.
Ciao e di nuovo grazie!