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Non carceri ma catacombe



La crudele novità di questo tempo dannato e benedetto.
Testo scritto in un momento di particolare tristezza e gioia.

La mia generazione può dirsi fortunata. I nati nel dopoguerra hanno avuto il dono e la grazia di potersi dissetare abbondantemente all’entusiasmo dei loro padri, che si scambiavano gli sguardi e lo stupore dei sopravvissuti e dei risorti, e poi s’immergevano caricati dalla fede nel compito di mettere a posto i cassetti della storia. Ho in mente occhi che lucevano persino nel buio, serietà riflessive, continuamente spezzate da liberi sorrisi, e canti che germogliavano dal gusto del lavoro. Noi siamo stati spettatori gioiosi del boom economico, abbiamo potuto (chi più chi meno) studiare e lavorare e nei tempi della crescita abbiamo mangiato pane, fede e valori, che hanno dato consistenza alla vita e certezze alle nostre scelte. Abbiamo conosciuto la bellezza pacata delle relazioni vere insieme a quella incandescente dei rapporti nuovi e quando è arrivato il ’69 abbiamo creduto di poter cambiare il mondo: ci sentivamo capaci di tutto, onnipotenti, allegri e scanzonati, protagonisti di una società che stava per cambiare in meglio.

Non fu così, 

il mondo non cambiò in meglio, ma rispetto al passato noi potevamo comunque ritenerci dei privilegiati: non fummo chiamati a combattere guerre ingiuste, non patimmo pestilenze né carestie, non ci furono dittature a strozzare le nostre libertà, a chiuderci nei campi di concentramento, a sterminare amici e compagni, non conoscemmo la fame vera né il freddo né la mancanza di una casa…

Fino al mese di febbraio del 2020, 

quando è arrivata la pestilenza. Si chiama covid, ma ha la virulenza della peste, un nome nuovo per una vecchia crudeltà, quella delle antiche epidemie. 
E oggi, quasi un anno dopo, ci siamo ancora dentro, a capofitto, a vagheggiare vaccini che per ora sembrano presentare più ritardi e limiti che benefici. Si sente spesso paragonare questo nostro tempo di morti e di contagi ai periodi bellici, ma chi ha vissuto l’ultimo conflitto mondiale dice che allora era peggio: c’erano i bombardamenti e bisognava chiudersi nei rifugi, i giovani erano costretti a partire per il fronte e spesso non tornavano, si facevano costantemente i conti con la fame, la povertà e la paura. 

Probabilmente i nostri vecchi hanno ragione. 

Eppure un parallelo articolato con quel periodo che conosciamo solo per sentito dire io lo vedo. Ad esempio, il virus è razzista non meno di Hitler e del nazismo: questi ultimi uccidevano preferibilmente gli ebrei, le persone disabili, gli zingari, i vecchi… il maledetto morbo predilige gli anziani, gli ammalati, le persone fisicamente fragili… La guerra costringeva a chiudersi nei rifugi, il covid serra le porte delle nostre case e le trasforma in anguste prigioni. La guerra strappava i figli alle famiglie, il virus le priva dei nonni. I conflitti bellici creavano separazioni molteplici e prolungate, l’odierna peste separa i contagiati dalle famiglie e li manda in terapie intensive dalle quali non si sa se torneranno. L’imminenza degli assalti costringeva i ministri del culto a dare assoluzioni pubbliche: la vicinanza della morte negli ospedali stracolmi… fa proprio la stessa cosa.

E tuttavia una differenza c’è ed è fondamentale. 

Oggi la perfidia del virus si spinge fino a toglierci ciò che è costitutivo delle nostre relazioni: il contatto fisico, l’abbraccio, il bacio, la carezza, la vicinanza. Questa crudeltà era sconosciuta alla guerra: i soldati partivano insieme, dopo aver abbracciato a lungo le mamme e gli amici; marciavano insieme, gomito a gomito, spalla a spalla, senza distanziamento alcuno; nelle trincee erano uno accanto all’altro, un corpo solo; negli occhi e tra le braccia dei commilitoni contemplavano la loro paura ed ecco che essa sbranava già un po’ meno il cuore. Chiusi nei caschi che tentano di farli respirare, o sprangati nel sonno indotto dai farmaci delle terapie intensive, i colpiti dal virus non riescono nemmeno a guardare negli occhi i compagni di sventura. I feriti dei conflitti negli ospedali da campo venivano spesso raggiunti dai famigliari, mentre gli ammalati odierni (ma anche gli ospiti delle RSA) non vedono i loro cari per lungo lungo tempo. Il diabolico virus tenta di far saltare i legami e questo è davvero il delitto supremo: se è vero che l’uomo è soprattutto un essere in relazione, il virus sta cercando di cancellare la nostra stessa identità, saccheggiando le nostre famiglie in ciò che hanno di più sacro.

E ci sarebbe tuttavia anche una differenza positiva. 

La guerra è stata voluta, pianificata, provocata esclusivamente dagli uomini: è nata segnata dalla piaga purulenta della volontà umana. Il virus no. Il virus è venuto dalle ali nere e dai musi rattigni dei pipistrelli ed è forse passato attraverso le spire viscide dei serpenti o le squame rigide dei pangolini. Animali che inquietano, che mantengono la loro distanza estetica e ontologica dall’uomo. Il virus è arrivato fino a noi portato nel ventre di ferro degli aerei e annidato nei polmoni dei nostri aeroporti, senza che nessuno di noi lo volesse.

…Ma allora perché sento voci 

che parlano di colpe umane, dirette o indirette, di errori o di calcoli voluti o involontari? Ancora? Anche oggi come ieri, fin dai tempi di Babele? Se fosse davvero così, salvaci Signore, oggi come ieri. Ci salvi la preghiera intensa, insistente, devota. Urlata. Preghiamo come se lottassimo per la vita amici, mettiamocela tutta perché davvero questa volta ne va della vita.

Preghiamo, 

e la nostra preghiera accolga e inglobi prima di tutto i giovani, che forse non avranno la vita buona che abbiamo avuto noi. Preghiamo e trasformiamo le nostre case: non più prigioni, ma catacombe; non carceri, ma cimiteri divenuti luoghi di vita, regni dell’oscurità inondati dalla luce della fede e della preghiera, nascondigli diventati terreni di semina per un futuro più bello. Trasformiamo quel brutto scatolone che da troppo tempo colonizza le nostre giornate nell’altare virtuale intorno al quale stringerci per vivere l’Eucaristia e offriamo piangendo la nostra sofferenza per la mancanza concreta del Pane di vita,  sapendo che il Signore non smetterà di nutrirci nemmeno in questi giorni: “Io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. Allora sarà bello rivivere l'alba della Chiesa,  lontani ma insieme.

Mariarosa T.

Immagine di copertina tratta da "exp sand" di Thibauld Chapelain