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Lessico morfologia e sintassi nell'umano e nel divino

Attraverso la parabola conoscitiva e la scalata semantica di una bambina.

“Zia, quegli useliti lì volano anche nella nostra curte?” Questa è la prima frase italiana composta da una bambina di nemmeno tre anni, che viveva in un contesto linguistico occupato esclusivamente dal dialetto, ma che aveva sentito parlare l’italiano, non si sa come né dove, e ne era rimasta affascinata. 
Quella stessa bambina andò poi all’asilo infantile e imparò davvero dalle suore a parlare l’italiano, il quale rappresentò però sempre la sua seconda lingua: l’idioma madre rimase il dialetto. In quegli anni (primi ’50), i bambini che arrivavano dal dialetto imparavano molto bene l’italiano, perché la sintassi dell’una e dell’altra lingua sono pressoché identiche. Si trattava di apprendere un lessico diverso, benché spesso simile, e di porre attenzione ad alcune regole morfologiche (tipo i pronomi personali gli e le al dativo e al plurale) le quali, benché presenti in parte anche nel dialetto, potevano creare delle sviste nel passaggio all’italiano. Era comunque la sintassi a rendere comprensibile l’italdialetto che da lì a qualche anno si diffuse in paese, soprattutto tra le mamme, desiderose di parlare ai figli con modalità più moderne e promozionali, in vista di un successo scolastico più facile, ma in realtà creando una gran confusione. Per questi bambini fu paradossalmente più difficile imparare correttamente l’italiano, perché la nostra bella lingua arrivava a loro già adulterata dalla mediazione materna. “Guarda che c’è il basello” si sentiva dire e anche: “Stai attenta che il cane ti cagna”, “Non andare dentro nella palta” “Mi corre dietro!” “Non bevere quell’acqua” “È borlato giù” “Non si podaria lasciar bugliere?” “Mi daga un etto di salame” “Darcelo subito, non è tuo!” "Chi ci piace i cachi?" “Saluta il zio!” “Io c’ho il zucchero, tu c’hai i uovi?” “Hai stenduto i lenzuoli?” “Non è festa, è dinlaù” “Prendi il cervisio, la cazzetta e la sidella”, "Puccia il biscotto nel latte"... Si trattava di fiori linguistici non privi di un certo umoristico fascino, che la mia amatissima maestra si affannava invano a correggere con una passione forse degna di miglior causa. Come si vede, qui erano lessico e morfologia a creare problemi, non certo la sintassi, che nel dialetto come nell’italiano si avvaleva di periodi formati da frasi principali, coordinate e subordinate.
Per tornare alla nostra bambina, che dopo gli useliti non sbagliò più (se si eccettua la fuga dalle labbra di un malandrino dinlaù che la fece subito arrossire), sappiamo che terminò l’asilo con il desiderio intensissimo di imparare a leggere. Purtroppo le suore le avevano insegnato soltanto le vocali, che lei scriveva in corsivo decine e decine di volte e leggeva unendole: aeiou oppure uoiea o ancora iouae. Poi andava dalla mamma, le mostrava ciò che aveva tracciato e le chiedeva: “Che cosa ho scritto?” Ovviamente la mamma rispondeva “Niente”, ma la piccola insisteva: “Però se c’è una cosa che si chiama aeiuo io l’ho scritta”. La mamma aveva altre tre bambine più piccole di cui occuparsi e quindi non le rispondeva più.
In realtà ad affascinare la bimba non erano le parole, ma il loro significato: perché non c’era qualcosa che si chiamava davvero aeiou o uoiea? Ciò che l’attirava era il rapporto tra parola pronunciata e parola scritta, tra parola dialettale e parola italiana. E così si perdeva a immaginare cose mai viste che si potessero chiamare aeiou oppure oiuea. Intuiva che c’era qualcosa di reale al di là della normalità del reale. Ciò che l’attirava era il senso. Si trattava di scovarlo e una volta scovato di toccarlo: le parole scritte si mostravano molto promettenti per questo, forse perché erano ancora sufficientemente avvolte dal mistero.
Poi arrivò davvero la lettura e fu una scoperta rapidissima: le bastò capire che anche le altre lettere erano grafemi e fonemi, cioè avevano una forma e un suono, e subito cominciò a chiedere alla nonna e alla zia: “Che lettera è questa?”. Compose così il suo alfabetiere e nel giro di quindici giorni leggeva correntemente: il mondo si dipinse di colori, il tempo si illuminò, lo spazio si dilatò. Lesse di tutto la bambina: libri, giornalini e perfino quotidiani e riviste per adulti quando ne trovava qualche pezzo in giro. Bramava i libri, li adorava, li coccolava, li leggeva e rileggeva fino ad arricchire il lessico e impadronirsi correttamente delle regole della morfologia. Quanto alla sintassi, l’abbiamo detto, c’era già: c’era nel dialetto assorbito con il latte della mamma, c’era nei racconti della nonna, nelle canzoni e nelle storie del papà, c’era perfino nei vagiti dei fratellini che non smettevano di nascere nella casa sempre più stretta. La sintassi era presente e dava senso (eccoci finalmente al senso!) al lessico e alla morfologia. Che cosa sarebbe stata la morfologia da sola? Un mero insieme di regole. Che cosa sarebbe stato il lessico da solo? Un’accozzaglia di parole. Quando però la sintassi si mette a legare il soggetto con il predicato e quest’ultimo con i complementi e poi, fatta la frase principale, comincia far girare le coordinate e le subordinate… oh allora ecco uscire il senso in tutto il suo splendore. E per fortuna questo senso c’è, esiste da sempre, si tratta di usarlo.

Spiego la metafora

Ho giocato con una metafora senza darlo a vedere, ma ora mi spiego, tornando alla bambina. Scoperto il senso delle frasi, la bimba incominciò inconsapevolmente a cercare un altro senso, perché intuiva che da qualche parte c’era un significato più grande. C’erano cose belle e cose brutte nella sua vita, ma erano come slegate, o meglio si riunivano nel centro di se stessa in quanto esperite da lei, ma portavano con sé un mondo che non si componeva mai del tutto, perché non si trovava una spiegazione valida per la totalità del reale. Naturalmente la bambina non faceva questi discorsi a se stessa, non ne sarebbe stata capace, ma c’era in lei un anelito istintivo e inconsapevole a qualcosa di più, a un significato più alto, comprensivo di ogni esperienza, di ogni domanda e di ogni risposta. Non si sa come, ella arrivò un giorno ad afferrare la parola infinito; non si sa perché, ma questa parola fu colta da lei come una promessa. Era un termine dai molti echi, dai molti significati, alcuni più brillanti altri più nascosti. 

La bimba incominciò subito a cercare l’infinito, 

ma nei libri di scuola non c’era: c’erano solo frammenti o forse bagliori di infinito, ma certamente non era questo ciò che la bambina cercava. Ciò che lei voleva era qualcosa che non sta al di là del finito, ma lo avvolge, lo comprende, lo sensizza. 

L’infinito era altrove 

e dovette passare un bel po’ di tempo prima che lo trovasse. Fu dormendo nel grembo odoroso di seta di una zia, durante il canto dei vespri, che lo trovò: l’infinito era in chiesa e aveva un cognome e un nome. Si chiamava Dio e si chiamava Gesù. Capì che Dio era dovunque: era tra i monti, sparso come un tutto che tutto avvolgeva, veniva avanti leggero e sorridente sul selciato di un monastero, si nascondeva sornione tra le ombre di un santuario, si chiudeva volontariamente al di là di una porticina dorata dietro la quale si poteva immaginare il Paradiso, traspariva da alcune parole diverse pronunciate come tante altre... Dio era anche in alcuni libri un po’ strani, che narravano vite assurde eppure di una logica stringente. E il senso della totalità era lì, in queste esistenze narrate ma prima ancora vissute, e nelle preghiere vespertine, che tentavano di acchiappare Dio, toccando con l’intelligenza il senso di tutti i sensi.

Poi vennero i tempi degli studi superiori e delle scienze umane

e l’intelletto della ragazzina, trovandosi davanti tante strade, si sperse per un po’. Le scienze naturali raccontavano un mondo di classificazioni, di chimica e di fisica; la filosofia e l’antropologia imponevano visioni che spesso avanzavano la pretesa di essere totalizzanti ma in realtà erano sempre parziali; la psicanalisi parlava di profondità oscure della psiche che si coniugavano con la consapevolezza dell’ego e la rigidità del super ego, gettando manciate di sospetto sulle azioni umane; la pedagogia dettava leggi su leggi che a volte si scontravano l’una contro l’altra. Fu così che di nuovo la realtà si slegò, levò le ancore e navigò in mari ampi e lontani. La bussola che guidava la navigazione della piccola donna era la curiosità, ma per un po’ essa fu paga di se stessa, non cercò altre risposte, le bastava l’approdo periodico agli isolotti separati del sapere.

Il disorientamento però durò poco 

perché le esigenze della Realtà maiuscola ritornarono a imporsi alla conoscenza intellettiva, alle emozioni e all’affettività. Il mondo si ricompose nel vissuto e la chiave esplicativa fu rinvenuta nella metafora linguistica, rubata dalle labbra di un amico: se le scienze naturali erano il lessico, le scienze umane potevano essere la morfologia, ma la sintassi che le unificava donando loro significato e senso non poteva che essere la fede. 

Fu questo il modo in cui Dio tornò ad essere ciò che è:

il principio e il fine di ogni realtà, la sua spiegazione ultima, la risposta esaustiva, il vero significato. La scoperta serpeggiò come luce lungo i sentieri della vita e ne illuminò ogni angolo, senza togliere valore alle scienze umane, ma solo collocandole nella loro giusta posizione, così come la sintassi non fa a meno del lessico e della morfologia, ma li assume, li unifica, li sensizza. La protagonista della vicenda narrata imparò gradualmente che scienza umana e sapienza della fede hanno bisogno l'una dell'altra. E questo anche nei momenti in cui Dio si rivela nella creazione, nella storia della salvezza e nel mistero del Natale, quando l'uomo conosce la divina sintassi nel lessico di un bimbo che nasce.  

Mariarosa Tettamanti (per la vicenda della bambina) e mons. Claudio Magnoli (per la metafora, la conclusione e altro ancora)

Immagine di copertina tratta da "Pexels" di Ylanite Koppens