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Una storia per ogni lettera dell'alfabeto: premessa


Come ho conosciuto Bettina

Io non vado mai sulla spiaggia di giorno, perché è talmente invasa da donne uomini bambini cani e ombrelloni che non riesco neanche a vedere la sabbia. Aspetto il tramonto e, quando tutti sono sotto alla doccia per ripulirsi prima di cena, scendo piano piano fino al mare, mi siedo su uno scoglio e attendo che il sole tocchi le onde e le dipinga di luce prima di scomparire nell’acqua. In quel momento il mare comincia a cantare e io l’ascolto. Voi adesso mi direte che non vi interessano le mie abitudini marine. Avete ragione, ma il fatto è che non sapevo come cominciare a parlarvi di Bettina. 
Vi ho detto che a quell’ora sulla spiaggia non trovo nessuno; potete quindi immaginare la mia sorpresa quando, quella sera, vidi i riccioletti castani e il costumino blu di una bambina che avrà avuto sì e no una decina d’anni. Era seduta sul “mio” scoglio e guardava corrucciata il mare. Io nella vita faccio la maestra e quando vedo un bambino non posso non parlargli, soprattutto se mi sembra triste. Così mi avvicinai alla bimba e le dissi, tanto per parlare: “Bella serata eh?” Riconosco che non si trattò di una frase intelligente, ma provate voi a trovare qualcosa di originale da dire a una bambina corrucciata, una sera in riva al mare. Comunque Bettina non mi rispose. Io non sono un tipo che si scoraggia alla prima battuta. “Non è ancora nata la bambina che non parlerà con me” pensai e tornai alla carica. “Siamo tristi questa sera eh?” insistetti. Nessuna risposta. “Oh ma chi crede di essere questa qui?” pensai risentita e decisi di tacere, almeno per il momento.

Dopo un bel po’ la smorfiosetta si riscosse 

e mi guardò. “Non siamo più arrabbiate?” le dissi un po’ sulle mie. “Non ero arrabbiata, ero assorta” rispose. “Ah, adesso si dice assorta” pensai, ma non vestii di parole il mio pensiero. Le chiesi invece come si chiamasse: “Bettina” mi disse. “Scommetto che è il diminutivo di Elisabetta” replicai. Mi corresse: “No, di Benedetta”.
Parlammo del più e del meno e io evitai accuratamente di dirle che facevo la maestra. Non lo dico mai ai bambini, per non correre rischi: se hanno delle maestre brave mi guardano bene, ma se hanno delle maestre cattive, apriti cielo, mi lanciano sguardi di odio così terribili che ne basterebbe uno per incendiare una casa... Finché me lo chiese lei: “Che mestiere fai?” “Ahi ahi, ci siamo” pensai e risposi ingarbugliandomi. “La ... la ... ecco non mi viene proprio ... mi sono dimenticata ... Accidenti ... la ... la ...maestra...ecco mi sembra proprio di sì ...faccio la ... maestra.” Con tutti questi “la ... la” non stavo certo facendo una bella figura, tuttavia Bettina non ci fece caso e mi guardò col visetto illuminato: “Come la mia madrina!” gridò entusiasta. Tirai un sospiro di sollievo: era andata bene! 

“Però la mia madrina fa anche la fata” 

aggiunse la bambina, come parlando a se stessa. “La ... cosa ?” dissi: credevo di non aver capito bene. “La mia madrina” spiegò tranquillamente Bettina “fa la maestra in Africa e insegna ai moretti. Tuttavia ogni anno, per il mio compleanno, diventa una fata, si attacca alla coda di una stella e viene a portarmi un regalo. Solo io la posso vedere.” “Povera piccola” pensai “ha certamente preso un colpo di sole e il suo cervellino si è spostato un po’ troppo in là nella scatola cranica. Per questo sta sragionando.” Decisi di assecondarla, come si fa con i matti. “E che cosa ti regala la tua madrina? Scommetto che l’ultima volta ti ha dato una zucca, che si è trasformata in carrozza, e dei topolini ...” Bettina non mi lasciò nemmeno terminare la frase: “Ti proibisco di confonderla con quella zuccherosa fata di Cenerentola! A me non servirebbe proprio una carrozza e nemmeno un principe che mi bacia. Bleah! Le scarpe di cristallo poi sono proprio una bella invenzione: chissà che male fanno ai piedi! E se si rompono e tagliano le caviglie, eh, ti sembra una bella cosa? Da' retta a me: quella fata lì aveva proprio un cervello da gallina!” Per la verità Bettina in quel momento stava ragionando proprio bene, ma io ancora non ero convinta della sua salute mentale e così indagai un po’: “Va bene, ho capito che la tua madrina è una fata intelligente, ma non mi hai ancora detto che cosa ti ha regalato.”

“Oh, tante cose!” disse Bettina 

“Ad esempio una gattina vera che mi parla con gli occhi e mi racconta le sue avventure quando sono triste; una calcolatrice invisibile che fa tutte le operazioni e risolve tutti i problemi di aritmetica: io l’ho messa nella mia testa e da quando ce l’ho sono diventata bravissima in matematica. Un’altra volta mi ha regalato una penna magica, che fa le correzioni da sola e da quel giorno non ho più commesso errori di ortografia ... Però il regalo più bello me l’ha fatto proprio oggi: guarda!” e mi mostrò una normalissima scatola di cioccolatini. La guardai delusa: “È solo una scatola di cioccolatini” dissi. “Non è solo una scatola di cioccolatini” sussurrò la bimba e sollevò il coperchio della scatola. Dentro c’erano ventuno scatolette, ognuna con una lettera dell’alfabeto stampata sul coperchio. “Ogni volta in cui mi sento triste, apro una di queste scatolette e subito mi trovo dentro una bellissima storia. Ho già aperto la prima: vuoi che racconti?” 

Dissi di sì e Bettina incominciò a narrare 

la storia dell’albero che si sentiva solo. Riuscii a farmi promettere che mi avrebbe raccontato anche le altre: “Se non potrò venire ti manderò qualcun altro” disse e fu di parola. 
Per venti tramonti ci trovammo sul nostro scoglio
e Bettina raccontò e raccontò; una volta sola venne con un’altra bambina, che si chiamava Irina.
A volte le storie erano brevi e semplici, altre volte più lunghe complesse. Ancora non so se credere alla faccenda della fata madrina, ma i racconti sono proprio belli. Per questo li ho scritti per voi. Ascoltateli o leggeteli e poi decidete se credere o no al racconto di Bettina.

Mariarosa Tettamanti 


immagine di copertina tratta da "ABC Lettering" di Dangerdust