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Quella volta in cui il tempo e lo spazio cambiarono i confini


Alla fine del secondo decennio del 2000, il mondo fu preso in ostaggio da un terribile morbo, quale nessuno aveva visto mai sulla faccia della terra. Si aprì così un periodo sconosciuto e doloroso, in cui il tempo e lo spazio cambiarono i confini e smisero di essere gli argini entro i quali scorreva la nostra vita. Lo spazio si restrinse e il tempo si dilatò. Prima di allora i luoghi e le ore erano andati solitamente d’accordo: si correva da un sito all’altro, sia concretamente sia virtualmente, e non c’era mai il tempo sufficiente per fare tutto ciò che si voleva. Tempo e spazio erano piccoli e i loro confini angusti; avremmo voluto più giorni e più territori, ma almeno la marcia era sempre in avanti e la direzione era chiara.

Improvvisamente,

in un giorno di fine febbraio, quando faceva ancora freddo ma già si scioglieva nell’aria la promessa del sole, ci trovammo tutti sepolti in casa, sotto soffitti divenuti troppo bassi e pareti diventate strette e soffocanti. Fummo travolti e sconvolti dai decreti governativi, ma soprattutto da numeri e immagini terrificanti: file e file di bare portate via dai camion, improvvisamente simili ai carri dei monatti; morti che venivano sepolti senza esequie; morenti che se ne andavano soli senza il conforto di una mano compassionevole; ammalati gravi, che non trovavano posto negli ospedali diventati lazzaretti e pernottavano nelle autoambulanze; assoluzioni impartite a gruppi di ammalati, come in guerra, prima di un assalto alla baionetta; gente costretta a vivere isolata nella propria camera, pianti e lamenti di chi scompariva e di chi restava ad affrontare vuoti incolmabili. 
No, non era possibile che questo succedesse proprio a noi. Eravamo sicuri di aver lasciato alle spalle della storia le pestilenze inferocite: noi avevamo inventato farmaci e scoperto vaccini, noi eravamo al sicuro. Noi, che eravamo il primo mondo, non il terzo e nemmeno il secondo. Tanti pensarono in questo modo e il virus danzò sulla loro leggerezza.

Poi poco per volta ci rassegnammo:

eravamo precipitati su un pianeta ignoto e infecondo, abitato dalla paura e dalla tristezza. E su questo pianeta alieno il tempo e lo spazio mutarono aspetto: lo spazio si strinse in pochi metri quadrati e il tempo si espanse e si adagiò in ore vuote, che non passavano mai. Così il tempo non stava più nello spazio e lo spazio invano rincorreva il tempo: le due realtà non andavano più di pari passo.  Se le coordinate spaziali e temporali cambiano, tutto cambia: la nostra conoscenza si modifica, si modificano la vita e il suo significato, la consistenza delle giornate, la percezione dell’altro e delle relazioni… A un ribaltamento di questo genere nessuno poteva resistere, eppure le quarantene si presentavano lunghe e ripetute.

Ci salvarono i bambini.

Dentro le nostre case, divenute carceri e tombe, i bimbi non si persero in lamenti e non si annoiarono. I bimbi giocarono. Non smisero di fare il loro dovere di cuccioli, che non sono tenuti a sapere tante cose né a interrogarsi sui giorni a venire, ma sono chiamati a vivere il loro futuro nel gioco. Sentivano sì la mancanza dei compagni, degli amici, degli allenatori, delle maestre, delle catechiste, dei loro don, ma anche a questo bisogno rispose il gioco. Bastò ai bambini prendere bambole e pupazzi, disporli su un divano e dare loro un nome: ecco la classe, ecco la squadra di calcio, ecco il gruppo della catechesi. Poi i bambini prendevano i mattoncini per le costruzioni e riproducevano la palestra, l’oratorio e perfino la chiesa. E per loro c’era sempre l’ora d’aria in giardino.  I piccoli continuarono dunque a fare i capricci, a rifiutarsi di svolgere i compiti e di andare a letto la sera, a smanettare computer e telefonini tolti  ai famigliari, a rispondere con entusiasmo e commozione alle proposte on line delle catechiste e del don, ma soprattutto continuarono a giocare, e fu così che senza saperlo mostrarono ai genitori che si poteva continuare a vivere restando caparbiamente e dolcemente se stessi, pur vedendo sempre le stesse cose per mesi. L’amore per la vita non aveva pareti, l’amore per la vita non aveva confini: questo fu l’insegnamento che ci venne dai frutti delle nostre viscere, che si rivelarono capaci di una resistenza ludica e solare. 

Analogamente e ancora di più fecero per noi le persone disabili.

Bambini autistici o con sindrome di Down, uomini e donne sordi, ciechi o in carrozzina, ci salvarono dalla pazzia che inevitabilmente scaturisce dalla perdita della realtà. E come fecero a salvarci? Semplice: continuarono a gridare il loro bisogno. Avevano come sempre molte esigenze queste persone: dovevano essere accudite, lavate, asciugate, ripulite, nutrite, dissetate, curate, calmate, rassicurate, istruite … Ciò che noi dovevamo fare per loro passava davanti a tutto il resto, perché i loro bisogni non ammettevano ritardi: in questo modo, conservarono per noi il significato della realtà che stavamo perdendo. Il senso di alienazione e di estraneità spariva, incalzato dall’urgenza delle loro necessità.

Anche i più giovani tra noi ci salvarono.

Prima della pandemia, i luoghi di crescita degli adolescenti erano tutti fuori casa: si trovavano nei licei e nelle università, nelle discoteche e in altri centri di aggregazione, nelle palestre e nelle piscine, sui campi da calcio e nelle strade. In questi spazi la loro fragilità, disabilità temporanea ma reale, poteva espandersi e diventare a poco a poco forza. Per questo pensammo che non avrebbero retto i mesi di clausura imposti dal governo e ci preparammo a riprenderli e a contenerli. Invece i giovani ebbero paura. Riconobbero questo sentimento e lo seppero integrare con naturalezza nel vissuto. Soprattutto se lo scambiarono senza vergognarsi, finché anche noi capimmo e  accordammo a noi stessi  il permesso di riconoscere e narrare il nostro timore. Fu molto importante e fu liberante, perché solo in questo modo la paura non si trasformò in terrore.

Ci salvarono gli anziani.

Oh sì, gli anziani, questi disabili a causa dell’età, furono il vero miracolo della pandemia di quel periodo maledetto. Quando l’infame virus si affacciò sullo scacchiere della storia, ognuno di loro nel segreto del cuore pregò: “Signore del tempo e dello spazio, prendi me tra le tua braccia, ma ti prego, comanda al virus di risparmiare i miei nipoti, i giovani e i bambini. Lascia a loro la vita, prenditi la mia!” E il Signore li ascoltò. I dottori dissero che gli ammalati morivano senza lamentarsi, ma solo i nostri vecchi ne conoscevano il motivo. Se i bambini ci regalarono l’attaccamento al vivere, le persone disabili la realtà e gli adolescenti la possibilità di accettare la paura, gli anziani ci diedero per la seconda volta la vita.

Ci salvarono anche i medici, gli infermieri e i preti,

indeboliti e talvolta disabilitati dalla violenza del morbo e dall’assenza vergognosa di protezioni, ma mai sconfitti: non tanto perché curarono le nostre piaghe e riportarono l’aria nei polmoni sfiniti e nelle anime stanche, ma perché con la loro temeraria dedizione ci ridiedero la dignità e l’orgoglio di essere uomini. L’avevamo perso strada facendo questo orgoglio, schiacciato dalla scoperta di aver accettato per anni una mala amministrazione che ora presentava il conto ai più poveri tra noi.
Ci salvò infine il più disarmato, il più debole, il più indifeso, il più piccolo ... il più disabile di tutti: ci salvò l’Uomo della croce.
Il crocifisso per amore ci ridiede l’amore. E solo quando provammo nella nostra carne il dolore acuto per l’assenza di Lui nell’Eucaristia, ritrovammo la fede negletta e capimmo che, comunque sarebbe andata l’epidemia, ce l’avremmo fatta: non grazie a improbabili arcobaleni, divenuti iconici mantra, adatti semmai ad esorcizzare temporaneamente il terrore, ma grazie a una debolezza che si svelava ricca di senso e di luce. 
Recuperammo in questo modo l’identità, la vita, l’aggancio alla realtà, la capacità di agire la paura, l’orgoglio di essere uomini, l’amore. C’era proprio tutto, tutto ciò che ci serviva per non impazzire: questa fu la nostra resilienza in quei tempi bui e fu proprio allora che imparammo a chiamarla fede. 

Oggi è il 6 maggio 2020. La fine della pandemia è ancora lontana, ma distanziandomi per un po’ dal suo centro credo di averne visto il senso. Un paesaggio non si vede interamente se non dall’alto.

Mariarosa Tettamanti


Immagine di copertina tratta da Foto stock royalty free con ID: 1450820657 di Yuganov Konstantin