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C'è bisogno di qualcuno (podcast e testo scritto)


Un'acqua misteriosa, un angelo che ha bisogno di aiuto per svolgere la sua opera misericordiosa, qualcosa di terribile nelle vite segnate dalla disabilità, a causa di una teoria insensata e di un boomerang inesistente, e il nostro vero DNA spirituale. Seguiteci in questo interessante viaggio, leggendo il testo scritto e/o ascoltando l'audio registrato per i Missionari comboniani. Per ascoltare, cliccare sul triangolino bianco inserito nel cerchio giallo.

Dal Vangelo secondo Giovanni, capitolo 5, versetti da 1 a 16

Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. [...] Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: «Vuoi guarire?». Gli rispose il malato: «Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l'acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me». Gesù gli disse: «Alzati, prendi la tua barella e cammina». E all'istante quell'uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare.
Quel giorno però era un sabato. Dissero dunque i Giudei all'uomo che era stato guarito: «È sabato e non ti è lecito portare la tua barella». Ma egli rispose loro: «Colui che mi ha guarito mi ha detto: “Prendi la tua barella e cammina”». Gli domandarono allora: «Chi è l’uomo che ti ha detto: “Prendi e cammina”?». Ma colui che era stato guarito non sapeva chi fosse; Gesù infatti si era allontanato perché vi era folla in quel luogo. Poco dopo Gesù lo trovò nel tempio e gli disse: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio». Quell'uomo se ne andò e riferì ai Giudei che era stato Gesù a guarirlo.
Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato.

C'è bisogno di un angelo

Ma che cosa succedeva in questa piscina? Perché per guarire bisognava aspettare che l’acqua si agitasse e poi entrare proprio in quel momento e per primi? Secondo gli studiosi non è facile capire la natura di questo fenomeno, che forse era dovuto all’immissione nella piscina di acqua pura, oppure a un flusso intermittente della stessa acqua.
Sta di fatto comunque che esisteva una credenza popolare che riteneva che quest’acqua avesse delle virtù terapeutiche miracolose e le attribuiva al movimento immesso nella piscina da un angelo del Signore.
    La verità è che c’era bisogno di qualcuno: c’era bisogno di un Angelo che muovesse le acque, ma c’era bisogno anche di qualcuno che immergesse il bisognoso nell’acqua mossa. Il paralitico di Betzatà viveva questa esperienza del bisogno in modo drammatico: paralizzato «da 38 anni» dice il Vangelo; 38 anni steso su una barella, perché nessuno aveva pietà di lui. 38 anni era un’intera esistenza, se si pensa che la vita media a quei tempi si aggirava intorno ai 30/40 anni. Una condanna all’ergastolo in una cella che aveva le dimensioni e la consistenza di una barella.

Eppure c'era qualcosa di peggio

Eppure c’era qualcosa di peggio per una persona con disabilità che viveva ai tempi e nella terra di Gesù. C’era qualcosa che colpiva e marciva nel profondo, qualcosa che seppelliva le giornate sotto cumuli di vergogna e sensi di colpa, sgretolando l’identità e rendendola reietta, colpendola negli affetti più cari e togliendo ogni gusto alla vita.
    Era la crudele e insensata teoria della retribuzione, della quale abbiamo già parlato in altri commenti, che spiegava la necessità della malattia e della disabilità con il diritto di Dio di castigare i peccatori.
Il peccato come un boomerang insomma: tu lo lanciavi verso Dio e lui prima o poi te lo rimandava indietro, colpendoti e facendoti soffrire. E questo concetto era talmente innestato nella mentalità del tempo, che non si fermava nemmeno davanti a una persona nata con una disabilità: chi aveva peccato, la madre o il feto, chiesero gli apostoli a Gesù quando incontrarono il cieco nato.
    Una scuola di maggioranza, quella del rabbi Hillel, affermava che era la madre a peccare e, grazie all’eredità morale, a passare la colpa al figlio attraverso il nutrimento; un’altra scuola di pensiero attribuiva invece il peccato allo stesso bambino non ancora nato. Inconcepibile e terribile.
    Immaginate che cosa succedeva in una famiglia in cui nasceva un bambino con disabilità: questa nascita, che avrebbe dovuto portare tanta gioia, portava invece una sofferenza indicibile e senza speranze, perché un bimbo con una grave disabilità sarebbe stato, in quei tempi, un uomo senza lavoro e senza nessuna possibilità di auto realizzazione, ma nemmeno di auto sufficienza spesso. Insieme a questo immenso dolore, però, arrivavano anche, nelle famiglie del tempo, l’onta e il sospetto: “Quale terribile peccato avrà commesso mio figlio mentre era dentro di me?” si chiedevano le madri angosciate. “Quale peccato innominabile avrà commesso questa donna per aver dato alla luce un figlio con questi problemi?” si chiedevano gli altri, compresi i mariti presumibilmente, e gli stessi figli una volta cresciuti.

Un problema che non esiste più?

E oggi? Oggi questo problema non esiste più: è stato spazzato via da Gesù: «Né lui né sua madre hanno peccato» ha detto Lui. Chiuso.
E se Gesù dice al paralitico: «Non peccare più perché non ti accada qualcosa di peggio» allude soltanto al fatto che il peccato spegne la vita più della stessa malattia e quindi la guarigione servirebbe a ben poco.
    E tuttavia non possiamo dimenticare che anche oggi la disabilità può spegnere la gioia di vivere in tante famiglie. «La malattia di Marco ci ha portati in un vortice di fatica e di dolore immenso» scrive Laura Cristina Bianchi, mamma di un bambino con una malattia genetica gravissima. 
E allora? E allora la verità è che c’è bisogno di qualcuno, c’è sempre bisogno di qualcuno. Negare aiuto a una famiglia con disabilità pensando “Mi dispiace, ma per fortuna non tocca a me” non è poi tanto diverso dal pensare: “Qualcuno si è meritato questa disgrazia”.     Siamo stati creati e siamo chiamati a stare insieme e quando viene al mondo un bambino, con o senza disabilità, è nostro, è di tutti noi.
Non per pietismo, non per assistenzialismo, non per paternalismo, non per un senso generico di tenerezza e nemmeno per libera scelta, badate bene, ma perché noi cristiani, in virtù del Battesimo, quindi in virtù della nostra vera nascita, cioè del momento in cui è stato immesso in noi un certo DNA spirituale, quindi per nostra vera natura, siamo figli dello stesso Padre e pertanto fratelli e sorelle. E questa non dovrebbe essere una novità per noi che recitiamo tutti i giorni il «Padre nostro».
    Queste bambine e questi bambini con disabilità, questi giovani problematici, questi ammalati, questi anziani, questi profughi, questi perseguitati… sono nostri fratelli e noi possiamo soltanto agire di conseguenza. Perché, per volontà della nostra vera natura e identità, noi siamo chiamati a non fare niente di diverso da ciò che ha fatto Gesù. Grazie.

N.B. Questo commento è stato chiesto all'autrice dalle suore Comboniane, nell'ambito del progetto "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini", iniziativa bellissima, che presenta quotidianamente la Parola di Dio, orientando e dando colori nuovi e liberi alle nostre giornate, spesso intrise di fatica e di sofferenza, ma anche abitate dalla gioia di sapersi amati da un Dio che è Padre.

Mariarosa Tettamanti, primo aprile 2025

Immagine di copertina tratta da Nature II di Carolina Bergamaschi