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Quando il lavoro è benedizione


Ho incominciato molto presto a lavorare, a sette anni, oggi si parlerebbe di lavoro minorile. Era il 1957, quando nostra madre ebbe due gemelli, il suo quinto e sesto figlio. Contemporaneamente nostro padre trovò un lavoro notturno in una tessitura di Varese e così la mamma dovette sostituirlo nei lavori dei campi. Era il mese di giugno, la scuola era chiusa e immediatamente la genitrice ci addestrò al nostro nuovo impegno.
Imparammo velocemente, mia sorella e io, come dosare il latte in polvere e unirlo all’acqua scuotendolo, come scaldarlo mescolandolo, come versarlo nel biberon e poi assaggiarlo per sentirne la temperatura, come infilare il succhiotto sopra alla bottiglietta del biberon, introdurre il ciuccio con destrezza e delicatezza nella bocca dei neonati e poi aspettare che trangugiassero tutto il liquido caldo e dolce. I piccoli incominciavano con buona lena, ma poi si addormentavano e bisognava scuotere il ciuccio nelle boccucce per farli riprendere a succhiare. Era un’operazione noiosa, così ogni tanto finivamo noi il latte, con una succhiata lunga e golosa. Imparammo anche a cambiarli, dopo aver preparato sul tavolo della cucina gli indumenti di stoffa (i pannolini usa e getta a quei tempi non c’erano): la fascia per prima, un po’ distesa un po’ arrotolata, poi il panno grande e infine il pannolino triangolare. La “vestizione” procedeva al contrario: prima si alzava l’angolo inferiore del pannolino triangolare, posizionandolo tra le gambine del piccolo, poi si ripiegavano gli angoli laterali sul pancino, dopo si piegavano i tre lati del panno grande rettangolare e infine si avvolgeva la fascia, dall’alto verso il basso, fino in fondo.

Ovviamente, legato come una mummia il neonato diventava molto più pesante e difficile da maneggiare e questo per due bambine di 6 e 7 anni non era il massimo. Forse per questo la mia schiena s’incurvava e tutti mi sgridavano, esortandomi a stare diritta. Forse per questo mia sorella e io non siamo cresciute molto oltre il metro e mezzo, a differenza degli altri figli dei nostri genitori: oggi gli psicologi parlerebbero di una crescita bloccata da un’adultizzazione precoce.

La nostra reazione però fu pura poesia. Come tutti i bambini infatti non ci rassegnammo alla realtà, fummo anzi fieramente irriducibili al reale e colorammo con il gioco il nostro lavoro, facendo di necessità, non virtù ma divertimento. In breve, adottammo i due bambini, io uno e lei l’altro, e giocammo alle mamme. Il mio vomitava spesso, il suo piangeva perché aveva un’ernia dolorosa, ma noi li amammo di una tenerezza infantile struggente e piena di luce.

Avevo 9 anni quando nacque il terzultimo dei miei fratelli. Arrivò al termine di un parto podalico non riconosciuto, era asfittico… “Sembrava morto” disse la mamma. Fu rianimato, ma qualcosa era successo e lo si vide subito nei ritardi di crescita che non tardarono a manifestarsi. Per portarlo in giro dovevo alzarlo prendendolo sotto le ascelle, ma era lungo e i suoi piedini toccavano terra. Una fatica. E un dolore, perché capivo la situazione, al di là delle parole non dette dei miei genitori.
Al termine della scuola elementare, mi mandarono da una sarta perché mia mamma ci teneva che imparassi a cucire. Intanto lei aspettava l’ottavo dei miei fratelli e dopo la sua nascita dovetti occuparmi di lui per 2 anni: era la mia piccola appendice, dovunque fossi io c’era anche lui. Provai a uscire con le mie amiche, ma avevo il piccolo in braccio e l’esperimento finì prima ancora d’incominciare.
Nel frattempo i miei si occupavano dei campi e io della casa, dei piccoli e del pranzo per tutti. Andavo anche al lavatoio comunale, con una carriola piena zeppa di panni da lavare. Ore con le mani nell’acqua, ma questo mi piaceva.
Mi era però rimasta dentro una grande voglia di giocare con le bambole; ne avevo due, ma una era chiusa in un armadio e nessuno la poteva toccare, mentre l’altro, un bambolotto, lo avevo messo in una borsa e mi accontentavo di guardarlo ogni tanto. Soprattutto mi piaceva leggere e scrivere, ma dovevo farlo di nascosto, perché mia mamma pensava che si trattasse di una perdita di tempo e mi sgridava, anzi mi gratificava spesso con dei sonori schiaffoni. Leggevo nascosta in soffitta con un sentimento di colpa che mi pesava sul cuore.
A 13 anni, per intercessione di una mia cugina e in maniera piuttosto rocambolesca, riuscii a riprendere la scuola. Finite le medie, dopo la nascita del mio ultimo fratellino avrei voluto frequentare il liceo classico, ma mio papà seppe da un controllore delle ferrovie nord che esisteva l’Istituto magistrale, il quale durava solo 4 anni e poi permetteva di lavorare. “Mandala lì” disse il controllore “le maestre non si sposano”.
Fu così che finii con il fare l’insegnante dei bambini, scoprendo senza volerlo il mestiere più bello del mondo, almeno per me. Ho insegnato per 42 anni e anche dopo la pensione ho continuato a lavorare su progetti nella scuola. Fino al lockdown.
Sono riuscita nel frattempo a diplomarmi come crocerossina e a laurearmi, ma non ho mai lasciato i bambini, non sono mai passata alle superiori come altri avrebbero voluto che facessi, e ho continuato a vivere il lavoro come un gioco, come all’epoca in cui con mia sorella mi occupavo dei gemelli. Fino all’ultimo giorno di scuola sono entrata in classe lasciandomi ogni problema alle spalle e riempiendomi ogni volta di un entusiasmo caparbio e resistente, pensando di continuare a giocare.
Vedere l’intelligenza dei bimbi aprirsi per dare luce alla vita, intuire lo sviluppo dei circuiti cerebrali e dei neuroni che si rincorrevano nelle scoperte più belle, escogitare attività capaci di meravigliare e di suscitare gioia e interesse, intuire e calmare ansie e paure, lanciare in esperienze entusiasmanti, sorseggiare l’affetto puro e la sorpresa genuina dei bambini… mi sentivo nata per questo, per questo ero venuta al mondo. Davvero per me il lavoro è stata una delle più grandi benedizioni.
A tutto questo si aggiunse l’apprezzamento dei miei superiori e dei colleghi e poi i compiti di formazione di insegnanti, educatori e psicologi: credo di essere stata apprezzata oltre le mie oggettive capacità. Doppiamente benedetta dunque e proprio grazie al lavoro.
Più di una volta sono stata però costretta a interrompere l’impegno scolastico per fare l’infermiera e trascorrere lunghi periodi in ospedale al capezzale dei miei famigliari: infarti, ictus, leucemie, maligni tumori… ho accompagnato mio papà fin sull’ultima soglia, lasciando i bambini dispiaciuti in mano alle supplenti; ho assistito, dandomi il cambio con la mia terza sorella, la mia seconda sorella e mia mamma. Anche questo era lavoro: pesante, non voluto, distruttivo, ma sicuramente lavoro.
Oggi non lavoro più, o meglio lavoro ancora come formatrice, ministra e catechista per la mia Chiesa, ascoltando il profumo dell’insegnamento, sperando di raddrizzare qualche linea storta, di aprire qualche conoscenza in più, di aiutare qualcuno a trovare un pezzetto di strada, di aumentare la mia e l’altrui fede. Quanto al lavoro per la mia famiglia, tutto si è fatto più arduo e pesante: la sorella con la quale dividevo gli impegni familiari ha perso sé stessa in una encefalopatia gravissima e ora è lei ad avere bisogno del nostro continuo impegno, cioè della mia seconda sorella e mio, come ai tempi dei gemelli, ma con un fardello molto più pesante e disperante da portare.
La vecchiaia e le malattie sporcano i pensieri, spengono le luci, seminano paure, sgretolano persino la voglia di vivere… Per fortuna lo sguardo non si ferma al presente, ma si lancia là, dove incomincia la vera bellezza della vita, dove tutto si compie e non c’è nessun bisogno di lavorare ancora, anzi dove il lavoro sarà uno solo, il più bello di sempre, dove cioè si tratterà soltanto di amare.

Mariarosa Tettamanti

Immagine di copertina tratta da Nostalgia di Margherita Grasso