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L'amore, vertigine e voragine



Partiamo da un'invasione di serpenti velenosi e da una domanda abbastanza comune, passiamo attraverso la logica del cagnolino, che ci induce a convertire la domanda iniziale in un'altra più mirata e troviamo una logica diversa, per arrivare a scoprire dove si trovano la vertigine e la voragine dell'amore.

Ascolta "Elikya, la pseranza del Vangelo senza confini, Mariarosa Tettamanti, formatrice diocesana, Milano,10 Marzo" su Spreaker.

Dal Vangelo secondo Giovanni, capitolo 3, versetti da 14 a 21. 

E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna».
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio.

Il serpente e la croce

Ci fu un tempo in cui gli Israeliti, durante la loro marcia nel deserto verso la Terra promessa, si trovarono invasi da serpenti velenosi che con un morso toglievano loro la vita. Mosé pregò per loro e Dio gli concesse di costruire un serpente di bronzo da innalzare sopra un’asta: chi avesse guardato il serpente sarebbe guarito, salvandosi la vita. 
Allo stesso modo, dice Gesù, che sta incontrando Nicodemo, capo giudeo e fariseo, venuto da Lui per parlargli, il Figlio dell’uomo sarà innalzato perché gli uomini abbiano la salvezza. Il riferimento indica chiaramente la croce di Gesù e il testo continua con una delle frasi più note di tutta la Scrittura: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». E’ una frase forte, che chiede di essere capita, perché lancia domande e apre dei problemi.

Perché? La logica del cagnolino

Mi capita a volte di sentirmi dire: “Se davvero Gesù, accettando di morire in maniera atroce per la nostra salvezza, ha fatto la volontà del Padre, perché il Padre, invece di spazzare via con un colpo di vento il peccato dal mondo, e quindi il dolore che ne è stato la conseguenza, ha preteso la morte del Figlio prediletto?” E c’è chi ragiona più o meno in questi termini: il peccato originale è un’offesa fatta a Dio e quindi la sua riparazione non può essere messa in atto da un uomo, ma dev’essere opera dello stesso Onnipotente. Come dire che, se il mio cagnolino in un impeto di rabbia mi morde a un polpaccio, non potrà da solo rimediare al danno: dovrò essere io a medicarmi la ferita. Certamente il ragionamento regge sul piano della logica umana, ma non può tenere sul piano teologico e quindi la domanda precedente riprende a girare: per soddisfare sé stesso Dio mette il Figlio nelle mani di chi l’ha già offeso una prima volta e fa cadere mostruosamente su di Lui il castigo per il peccato degli uomini?

Un cambio di domanda e una risposta articolata

Ecco, credo che per uscire da questo vicolo cieco, questa domanda dovrebbe convertirsi in quest’altra: “C’è qualcosa di più grande che dare la propria vita?”. Aspettiamo a dire di no.
Per rispondere dobbiamo snidare un errore nascosto all’interno di una separazione indebita tra il Padre e il Figlio, dimenticando che Dio è uno solo: Padre, Figlio e Spirito santo. Dove c’è l’Uno c’è l’Altro, il dolore dell’Uno è misteriosamente il dolore dell’Altro. Il soggetto personale della sofferenza redentiva è uno, Gesù Cristo, ma le nature sono due: nel Figlio è presente il Padre, come ci ricorda mons. Magnoli. La frase di cui stiamo parlando dunque, che ci introduce nel cuore dell’azione salvifica di Dio, andrebbe letta così: “Dio ha tanto amato il mondo da dare sé stesso nel suo Figlio unigenito”. In quanto Dio, il Padre non sarebbe potuto morire, ma generando il Figlio, fin dai tempi non tempi dell'eternità, come rammenta don Monti, e incarnandosi in Lui è potuto arrivare a questo eccesso d’amore.
E d’altra parte, già sul piano puramente umano, ogni papà dà all’umanità la sua persona e la vita nei figli che lo continueranno … e non è solo questione di DNA che si riproduce. Quando parlo di questo argomento durante i miei incontri con catechisti e ministri della comunione eucaristica, chiedo sempre ai genitori presenti se soffrirebbero di più assistendo alla morte di un figlio o alla propria. La risposta è scontata, unanime, non cambia mai: tutti, ma proprio tutti, preferiscono di gran lunga morire loro stessi piuttosto che veder morire un figlio. “Se muore mio figlio muoio anch’io” dicono i genitori.
Allora credo che questa scelta dica chiaramente che Dio ci ha dato il dono più grande di cui potesse disporre (se così si può dire): ci ha dimostrato cioè che Lui è arrivato a dare non solo sé stesso, ma anche il proprio Figlio per amore. E solo Lui poté arrivare a tanto, Lui, non dimentichiamolo, che aveva fermato la mano di Abramo, quando stava per sacrificare il Figlio. Lui, che ha dato il Figlio per noi, non vuole che lo facciamo noi per Lui.
Si dice che ai tempi delle persecuzioni dell’imperatore Decio ci fossero dei genitori pronti a morire per Gesù e per la fede, i quali però compravano i “libelli”, cioè quei certificati che attestavano di aver sacrificato agli dei senza averlo realmente fatto, e li acquistavano per i figli, in modo da salvare la loro vita. Questo sì è comprensibile per noi: “Uccidete me, ma lasciate in vita mio figlio”. E invece il teologo Moioli scrive: «La croce è il dono che il Padre e il Figlio ci fanno insieme». Nell’unione e nell'accordo perfetti tra il Padre e il Figlio dimora dunque il vero segreto della croce. Allora sì, amici, allora sì, c’è qualcosa di più grande che dare la propria vita: è dare la vita del Figlio insieme alla propria.

Vertigine e voragine 

Pensare a questa cosa significa lasciarsi sommergere da un senso di assoluto sbalordimento, da un barcollamento emotivo e da un decentramento totale rispetto alle nostre idee, che devono confluire nel mistero. E forse qui siamo nel cuore della "divergenza" del pensiero di Dio rispetto al nostro. Mi viene il magone.
Questo non è solo il vertice dell’amore di Dio per l’umanità, amici, questa è vertigine e voragine dell’Amore. E allora noi che cosa aspettiamo a morire, vivendo di gratitudine e di amore per Lui? Grazie!

N.B. Questo commento è stato chiesto all'autrice dalle suore Comboniane, nell'ambito del progetto "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini", iniziativa bellissima, che presenta quotidianamente la Parola di Dio, orientando e dando colori nuovi e liberi alle nostre giornate, spesso intrise di fatica e di sofferenza, ma anche abitate dalla gioia di sapersi amati da un Dio che è Padre.

Mariarosa Tettamanti



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