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Il male e il mistero


Abbiamo parlato diverse volte del male e del dolore, il suo percepito umano, ma ogni volta ci siamo resi conto di essere di fronte a uno dei più grandi misteri della vita. Aggiungiamo anche oggi qualche riflesso di luce al problema, rivolgendoci questa volta a san Paolo.

Ascolta "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini, Mariarosa Tettamanti, formatrice diocesana, Milano, 25 Gennaio" su Spreaker.
Dal Vangelo secondo Marco, capitolo 16, versetti da 15 a 18.

E (Gesù) disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».

Demòni, serpenti, veleni e malattie

Demòni, serpenti, veleni, malattie… Per la quarta volta commento per Elikya questo testo. Abbiamo visto, esattamente un anno fa, i significati simbolici di questi elementi spaventosi, i quali però presi insieme, hanno un nome chiaro: sono il male, sono alcune delle tante facce del male, quattro manifestazioni del male.
A quanto pare, tutti noi, in quanto missionari, non siamo tenuti lontani dal male, anzi siamo mandati ad incontrarlo, con la promessa che non soccomberemo.

E allora parleremo del male

E allora parleremo del male. Del male in generale e del suo percepito umano, cioè il dolore.
Chi è stato a contatto con malati incurabili, chi ha vissuto in guerre e terremoti, chi ha visto diluirsi i contorni dell’intelligenza umana nei malati di mente, chi è stato vittima di violenze efferate, chi piange congiunti amatissimi… sa di che cosa stiamo parlando.

Perché?

Ma da dove viene il male? Chi l’ha voluto? Il mito biblico delle origini dice con chiarezza che Dio non ha creato il male.
E allora, se Lui non c’entra, perché non lo toglie, perché non lo distrugge? Non vede Dio che il male e il dolore contraddicono la sua bontà e la stessa vita?
Lo diceva già Epicuro, quel filosofo greco vissuto tra il IV e il III secolo a. C.; lo diceva con un sillogismo che ci è stato tramandato dallo scrittore latino Lattanzio:
Se Dio vuole togliere il male dal mondo ma non può, è impotente, però questo non è possibile, perché in quanto Dio egli è onnipotente, quindi questa possibilità è da escludere; se Dio può togliere il male ma non vuole, allora è ostile all’uomo… eh; se infine vuole e può togliere il male, perché il male continua a imperversare nel mondo?
Che cosa scegliamo, amici? L’ostilità di Dio o l’assurdità del male e quindi l’assurdità di un Dio che non elimina l'assurdo? Scusate il gioco di parole.
No: razionalmente il connubio tra Dio e il male appare impossibile: il male è tanto più scandaloso e incomprensibile quanto più si crede alla bontà di Dio. E’ stato scritto, a questo proposito, che il male è il cavallo di Troia che introduce nel credente i dubbi dell’ateismo; è l’esplosivo scagliato contro le religioni, la valanga che seppellisce la bontà divina… L’esperienza del soffrire, dice il teologo Sequeri, getta sospetti sul carattere promettente della vita, fino al punto in cui l’uomo arriva a chiedersi se valga la pena di essere nato, oppure a desiderare di tranciare le radici della propria esistenza.
Uno di questi è il profeta Geremia, che pure era un grande amico di Dio, come tutti i profeti: (Ger 15,18). «Perché mai sono uscito dal seno materno, per vedere tormenti e dolori?» si chiede.
Ecco perché tante persone soffrendo arrivano a negare che Dio esista, oppure si rassegnano a non capire, soffocano le domande e si accontentano di passare la vita cercando di evitare il male. Altri invece tentano di assolvere Dio, attribuendo la colpa del male al demonio o alla cattiveria umana.
Insomma… non ci siamo. La questione del male rimane un mistero, racchiuso semmai nella logica di quella libertà che Dio ha dato all’uomo fin dalla creazione e che dall’uomo è stata usata per rifiutare il bene creato da Dio, introducendo così nella realtà il male increato.

Per ciò che riguarda il dolore...

Per ciò che riguarda il dolore, invece, se vogliamo capire qualcosa, dobbiamo guardare alla sofferenza, non solo come a un fatto concreto, ma prima ancora come a un evento simbolico, come ci ricorda il biblista Ravasi, cioè come a un vissuto che cerca il suo significato fuori da sé, come ebbe a spiegarmi il liturgista Magnoli. Faccio un esempio per farmi capire: ogni malattia grave non è soltanto un fatto biologico e fisiologico, ma anche, per la persona che la vive, una questione esistenziale e spirituale, che scatena una crisi di significato e muove dei “perché”. “Perché io, che sono un bravo cristiano, perché a me?”. La risposta non la troviamo in noi stessi e tanto meno nella malattia, dobbiamo cercarla altrove.
Allora credo che il problema sia declinabile in questo modo: se Dio è buono e ci ama (e questo è certo) e se il dolore continua a devastare il mondo (e anche questo è certo) vuol dire che da qualche parte il dolore deve avere un senso e noi lo dobbiamo scoprire.

La soluzione di Paolo

Ebbene, uno che ha dato un senso al dolore è stato proprio san Paolo, del quale oggi festeggiamo la conversione. Paolo ha sofferto moltissimo. Lo dice lui stesso, nella seconda lettera ai Corinti. Spesso parla del dolore e lo accosta sempre alla gloria, una gloria certamente offuscata nella croce, ma rivelata pienamente nella risurrezione.
Ecco, il segreto di Paolo consiste innanzitutto nel non separare mai la croce dalla risurrezione: «Noi» dice «portiamo sempre e dovunque la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo».
E poi dice: «Mi vanterò delle mie infermità». Euh… che cosa significano queste parole? Paolo è forse un eroe stoico, capace di sopportare il dolore con compiacimento? Nooo, Paolo non cerca il dolore. Paolo impara dall’esperienza che «come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione». E questo succede perché il cristiano soffre e gioisce con Gesù, non è mai solo.
Certamente il dolore rimane e deturpa il corpo e l’anima, ma essendo uniti al Signore, noi possiamo cambiare il nostro modo di viverlo, perché nelle sofferenze del Crocifisso, comprese attraverso la fede, ritroviamo le nostre sofferenze arricchite di nuovi contenuti che vengono dalla risurrezione. Questo non vuol dire che per avere la fede ci vuole il dolore, intendiamoci, ma che anche nel dolore Dio può aumentare la nostra fede. E’ il paradosso della forza nella debolezza: «Quando sono debole, allora sono potente» dice Paolo e aggiunge: «la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza». La sofferenza dunque conduce alla speranza e può arrivare a ritemprare spiritualmente chi soffre.
Ma c’è un concetto piuttosto complesso, l’ultimo di cui parliamo oggi, espresso da Paolo nella lettera ai Colossesi. Dice: «Io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne… ». Eppure nella lettera ai Romani Paolo, parlando di Gesù, dice che è Lui l’unico e perfetto mediatore. E allora?

La risposta viene dall’esortazione apostolica Salvifici doloris, la quale a questo proposito spiega che la sofferenza, se viene idealmente inserita nei patimenti di Cristo, acquista valore, misteriosamente ma realmente.

Conclusione

Che cosa posso dirvi concludendo, amici… non certo che abbiamo risolto il problema del dolore. Posso dirvi, anzi è Paolo che lo dice, che nel dolore ci basterà girare il capo per vedere Lui, Gesù, al nostro fianco. E Lui che cosa fa? Soffre con noi.
In questo modo potremo sperimentare anche noi il paradosso della forza nella fragilità e saremo così uniti a Lui da poter partecipare alla sua vittoria sulla morte e sul male, come ogni sposa, dando ciò che ha, partecipa ai dolori e ai successi dello sposo e li vive come suoi.
E potremo addirittura ritemprarci spiritualmente e trovare letizia.
Si può, amici, si può. Non so voi, ma io ho conosciuto almeno una persona che all'interno di una sofferenza impossibile ha saputo mantenere, non solo la fede, ma anche la pace e la letizia. Siccome molti di voi lo conoscono, non faccio nomi. Si può, purché non separiamo mai l’esperienza della croce dalla fede nella gloria della risurrezione.
Questo è il mio auspicio, carissimi, per voi e per me. Grazie!

N.B. Questo commento è stato chiesto all'autrice dalle suore Comboniane, nell'ambito del progetto "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini", iniziativa bellissima, che presenta quotidianamente la Parola di Dio, orientando e dando colori nuovi e liberi alle nostre giornate, spesso intrise di fatica e di sofferenza, ma anche abitate dalla gioia di sapersi amati da un Dio che è Padre.

Mariarosa Tettamanti

Immagine di copertina tratta da Iceland Summer I di Carolina Bergamaschi