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Il moribondo e il rinnegato (podcast e testo scritto)


Lo stile di Dio e la forma della Chiesa: una lettura non scontata della parabola del buon samaritano, in compagnia dell'esortazione apostolica "Salvifici doloris" di Giovanni Paolo II e del biblista Moscatelli. Nel post il podcast di Elikya (iniziativa dei missionari comboniani), il testo scritto e due illustrazioni di Virna Paghini, di cui una da colorare.

Ascolta "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini, Mariarosa Tettamanti, Milano, 03 Ottobre" su Spreaker.

Dal vangelo secondo Luca, capitolo 10, versetti da 25 a 37.

Un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». 
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso». 


Il moribondo e gli uomini di Dio

Oggi vi invito a camminare sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico: una strada abbastanza affollata direi, dati i tempi. A terra c’è un moribondo: non può gridare né muoversi, non può richiamare l’attenzione di nessuno, si trova in uno stato di assoluta passività. Eppure, nel congegno narrativo è lui il «movente» degli altri tre personaggi, per i quali innesca allontanamento o avvicinamento. E questo semplicemente perché è lì, in quello stato di completo bisogno.

E passa un sacerdote, cioè un uomo di Dio. Ha cose importanti da fare e poi le esigenze della purità gli impongono una scelta: un bravo sacerdote evita il contatto con il sangue e con i cadaveri, Dio ha la precedenza… e così il sacerdote passa oltre.
Per il levita è lo stesso, anche lui è un uomo di Dio. Sono due persone dalla religiosità ineccepibile, ma si negano al bisogno dell’altro.

Il rinnegato 

Ed ecco la sorpresa: passa un samaritano. È un rinnegato della religione ebraica, peggio di un eretico, peggio di un pagano. Eppure lui vede il ferito e questo gli basta per mettere in movimento la dinamica della misericordia, che si snoda in una catena di azioni consecutive: vede, prova compassione, si ferma, si avvicina, versa olio e vino sulle ferite, le fascia, mette il malcapitato sulla sua cavalcatura, lo porta all’albergo: otto movimenti dell’anima prima ancora che del corpo. Insomma questo qui spende dei soldi, perde una giornata... eppure è in viaggio, non è uno sfaccendato.

Lo stile di Dio

In realtà Gesù con questa parabola non dice chi è il prossimo, come gli chiede il dottore della legge, ma  suggerisce uno sguardo nuovo sul povero: prendersi cura del povero è epifania di “vita eterna”, di quella vita eterna che il nostro malintenzionato interlocutore chiedeva a Gesù. Ma perché la misericordia è così importante? Per capirlo, pensiamo a ciò che Luca scrive nel capitolo 6: «siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro»; la misericordia allora è il segno di Dio, è il suo stile, è il suo modo di amare. Impariamo questo stile dal samaritano, da quest’uomo buono che vive la prossimità con chi soffre, e camminiamo con lui lungo il crinale di quattro verbi: fermarsi, commuoversi, compatire, aiutare.
Fermarsi non è soltanto arrestarsi, significa “dare del tempo”, cioè non essere persone di corsa, significa essere un po’ smemorati, di quelli che dimenticano l’orologio a casa, di quelli capaci di ascolto paziente, un ascolto che non forza le parole, ma sa attendere, attendere, attendere.
La commozione invece è un movimento dell’anima, è un’emozione che lambisce il cuore. A volte strappa le lacrime, a volte è soltanto un sussulto, ma permette sempre al dolore dell’altro di invadere la mia intimità. Se non ci commuoviamo mai, dobbiamo chiederci seriamente dove sta andando il nostro cuore: forse non ha più porte che si possano aprire per far entrare la sofferenza altrui. Bisognerà rimediare allora, alla scuola di Gesù.
Compatire. La compassione è la commozione che mette le radici, è poter dire: “Il tuo dolore è anche il mio, io patisco con te”.
E questa compassione poi, non può non sfociare nell’aiuto. Aiutare è dare sé stessi, garantire una presenza, è dire: “Puoi contare su di me, io ci sono”. L’aiuto, vedete, è qualcosa di molto pratico: pagare una bolletta per chi non lo può fare, fare la spesa a una famiglia numerosa che fatica ad arrivare a fine mese, sostenere gli studi di un ragazzo africano, adottare un bambino a distanza, mandare dei soldi a un missionario e tante altre azioni che l’intelligenza della fede e la creatività della carità non mancano di suggerire.
Insieme, queste quattro azioni coniugano il verbo “donarsi”, il predicato chiave dell’antropologia cristiana: il discepolo trova la sua identità vera nel regalo agli altri di sé e della sua vita. La sofferenza dal canto suo chiama l’amore disinteressato, l’unica lima capace di smussare la spada dell’io, l’unico antidoto al veleno dell’indifferenza. Nel programma messianico di Cristo, la sofferenza serve a sprigionare le opere dell’amore, nelle quali il suo significato salvifico si realizza fino in fondo. Fermiamoci un attimo a pensarci: il significato salvifico della sofferenza si realizza fino in fondo nelle opere dell’amore, che a tutti noi è dato compiere. Non è straordinaria questa cosa?

La locanda

E sapete infine qual è il significato della parola “locanda” nella parabola del buon samaritano? Significa “il luogo che tutti accoglie”, il luogo cioè dal quale Gesù si aspetta l'ospitalità per i bisognosi.
Che sia figura della Chiesa? Eh… direi di sì… anche perché di un vero albergo, quando vogliamo dire che è buono, non diciamo certo che «prende tutti», anzi! E invece nello sguardo di Dio questo albergo, questa Chiesa, è un luogo giusto, un luogo come si deve, proprio perché prende tutti. Ed è un luogo vivamente consigliato da Gesù, perché lì si guarisce e si trascorrono delle buone convalescenze. 
Ecco come la Chiesa diventa missionaria. Bello vero? E allora... “Buon cammino, e soprattutto buone soste, sulla strada che va da Gerusalemme a Gerico”.

N.B. Questo commento è stato chiesto all'autrice dalle suore Comboniane, nell'ambito del progetto "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini", iniziativa bellissima, che presenta quotidianamente la Parola di Dio, orientando e dando colori nuovi e liberi alle nostre giornate, spesso intrise di fatica e di sofferenza, ma anche abitate dalla gioia di sapersi amati da un Dio che è Padre.

Mariarosa Tettamanti

Immagine di copertina tratta da What does it mean to be free Boock Illustration di Ksenlia Urban.