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Non piangere (podcast e testo scritto)


"Non piangere": quanta confidenza e quanta tenerezza in queste due parole... e quanto amore, quando sono pronunciate dal maestro di Nazareth. Nel post, testo scritto e podcast di Elikya (iniziativa dei missionari comboniani).

Ascolta "Elikya, lla speranza del Vangelo senza confini, Mariarosa Tettamanti, Milano, 13 Settembre" su Spreaker.

Dal Vangelo secondo Luca, capitolo 7, versetti da 11 a 17.

In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, alzati!». Il morto si mise seduto e incominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

Un corteo e una voce

Il corteo procede lentamente verso il cimitero. Una donna accompagna il figlio alla sepoltura e i suoi singhiozzi sovrastano il brusio della folla. È una vedova, ha già perso il marito e ora ha visto morire l‘unica ragione della sua vita. È rimasta sola, le sue giornate ormai completamente saccheggiate non hanno più senso... Ma ecco  una voce: «Non piangere!» E il figlio le viene restituito.
Questo prodigio, che è raccontato soltanto dall’evangelista Luca, accosta Gesù a due grandi profeti dell’Antico Testamento, Elia ed Eliseo: entrambi infatti ridiedero la vita a due bambini, figli unici di madri vedove. Anche il paese, Nain, non era molto lontano da Sunem, il territorio in cui Eliseo compì il miracolo, e quindi è visibile la continuità tra i due Testamenti, pur con le novità sostanziali tra il vecchio e il nuovo. Questo e altri episodi mostrano chiaramente, come del resto sappiamo, che siamo di fronte alla stessa rivelazione, incominciata ai primordi dell’umanità e conclusa con Gesù e i libri del nuovo Testamento. 
È bello pensare che le nostre radici sono tanto lunghe da sprofondare nel terreno fertile della prima Parola, ma è ancora più bello pensare che la compassione di Dio per l’uomo che soffre tocca il suo culmine in Gesù, dando compimento a una rivelazione che però, forse è il caso di dirlo, era già tutta presente nel progetto iniziale di Dio, anche se poi si è mostrata a noi gradualmente, nella storia, secondo le nostre tappe di comprensione e i nostri tempi. Dal principio Dio, infatti, aveva messo in gioco tutto, assumendosi ogni tipo di rischio, considerando cioè il peccato dell’uomo, il dolore e l’incarnazione del Figlio. E in Lui, nel Figlio, Dio si avvicina alla sofferenza umana per respirarla, comprenderla e abbracciarla.

Regole sovvertite da una logica nuova

Il Figlio di Dio, con i sofferenti, non solo sovverte le regole sociali, come quando sconfessa il sabato o tocca gli intoccabili lebbrosi, ma sconfigge anche le regole della natura, come in questo caso, e come nel caso in cui riporta la luce negli occhi dei ciechi, o quando scioglie i muscoli e i nervi rattrappiti di una mano secca, o quando con la sua parola "terapizza" efficacemente una paralisi, sciogliendola all'istante, o ancora quando rimette in connessione le corde vocali con la lingua e il cervello di un muto. Più avanti, quando morirà sulla croce, possiamo dire che Gesù sconfiggerà le regole stesse dell’essere Dio: un dio non muore. 
Per esserci vicino nella sofferenza e nella morte, Dio, dopo aver scelto l’incarnazione, sceglie la sofferenza indicibile della passione e l’estrema dissociazione della morte. Un Dio che per soffrire e morire con noi prende carne nell’umanità. Paradosso impossibile dell’amore.
Perché il senso profondo dell’incarnazione e della passione, il centro assolutamente unico della dottrina cristiana, è proprio in questa logica di amare di Dio, il quale, come disse il teologo Moioli, vuole condividere con l’uomo tutto ciò che può condividere senza contraddire sé stesso: e questo significa arrivare ad essere come l’uomo, non nel peccato, ma perfino nella morte del peccatore, in modo che l’umanità conosca la morte salvata, cioè la risurrezione.
E in questo desiderio di Dio di essere come noi, dice ancora don Monti, è perfino possibile vedere una forma di sofferenza divina, non data, come per noi, da un limite, da una mancanza, ma dalla sua stessa perfezione. Grandioso.

La voce che ha chiamato l'incarnazione

Prima ancora dei peccati, allora, a chiamare l’incarnazione, e qui cito Bonora, sono stati il pianto delle madri che perdono i figli e le lacrime delle sorelle che perdono i fratelli, gli occhi spenti, che costringono a una vita infelice, le labbra mute di chi è rinchiuso nel silenzio, le membra immobili di chi vive su una barella… E da quando la realtà umana è stata tutta attraversata dal divino, come leggiamo nella Salvifici doloris, il dolore dell’uomo si è legato all’amore e la sofferenza non è più uguale a prima. Dentro c’è un germoglio di vita e c’è un traguardo: la comunione con Gesù, e la sua e nostra risurrezione. Non possiamo che dire… gaudeamus fratelli.

N.B. Questo commento è stato chiesto all'autrice dalle suore Comboniane, nell'ambito del progetto "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini", iniziativa bellissima, che presenta quotidianamente la Parola di Dio, orientando e dando colori nuovi e liberi alle nostre giornate, spesso intrise di fatica e di sofferenza, ma anche abitate dalla gioia di sapersi amati da un Dio che è Padre.

Mariarosa Tettamanti

Immagine di copertina tratta da First day fun di Ana Varela Illustration.