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Il campo, la perla e il pensiero controfattuale (podcast e testo scritto)

Lungo il viaggio esistenziale di ogni uomo c'è un tesoro da cercare e acquistare. Vediamo come e vediamo perché. Nel post troviamo il testo scritto, il podcast di Elikya (iniziativa dei missionari comboniani) e due disegni di Virna Paghini, di cui uno da colorare. Per ascoltare, cliccare sulla freccina bianca contenuta nel cerchietto giallo.

Ascolta "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini - Mariarosa Tettamanti,Milano, 27 Luglio" su Spreaker.

Dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 13, versetti da 44 a 46.

Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.

Cercare sì, ma dove?

Queste due parabole dicono tre cose del Regno dei cieli: 1) il Regno dei cieli è così prezioso da essere il valore più alto a cui aspirare; 2) il Regno dei cieli è nascosto e quindi bisogna cercarlo; 3) quando lo si è trovato, si deve abbandonare tutto per entrarvi. E noi, mi viene da chiedere, come siamo messi con questo Regno, con questo tesoro così unico? Lo cerchiamo o siamo convinti che non ci interessa? Perché un’esistenza senza tesoro non ha sapore, un uomo senza tesoro, cioè senza un centro a cui riferirsi, senza una passione vera, che duri, non può reggere agli urti della vita.
Allora bisogna cercarlo questo tesoro, ma non è facile, proprio perché è nascosto. Ed è nascosto così bene che finiamo per dimenticarlo e per questo per molto tempo nella vita inseguiamo tesori effimeri: lo studio, il lavoro, l’innamorato, la famiglia, i figli… A volte sono i tesori ancora più piccoli che ci distolgono dalla ricerca: arrivare a fine mese, programmare le vacanze, trovare il modo di divertirsi… Tutte cose belle e necessarie certo, ma se ci accontentiamo rischiamo di dimenticare che dentro di noi c’è un desiderio che parla sottovoce, sì, ma con insistenza, e chiede di essere riconosciuto e preso sul serio.
È qualcosa che abita nelle viscere della nostra interiorità e ci spinge a cercare proprio il Regno di Dio, perché i nostri regni non bastano. E se noi dimentichiamo questo bisogno diventiamo inevitabilmente degli schizofrenici dello spirito, delle persone scisse, spaccate, attirate ma sempre lontane dal loro vero desiderio, dal loro vero bisogno. Perché Gesù dice tante cose, sì, ma in realtà parla di una cosa sola: parla della nostra felicità e se dice che dobbiamo cercare il suo Regno lo dice per noi, non contro di noi.
Ecco, dobbiamo partire allora da questa esigenza profonda, altrimenti non abbiamo nessun motivo per cercare il Regno di Dio ed è per questo che l’uomo d’oggi purtroppo non lo cerca: in fondo la nostra vita può andare bene così, con i suoi alti e bassi, con le piccole o grandi soddisfazioni… Ma quando riconosciamo in noi la forza di questo bisogno, comprendiamo che si tratta di qualcosa che ha a che fare con la nostra identità più intima e vera, qualcosa che ci abita fin dai primordi dell’umanità.
Addirittura? Eh sì, facciamo un decisivo passo indietro e ascoltiamo.

Un desiderio che risuona nella fonte genetica dell'uomo

Nella fonte genetica dell’uomo, quando Dio ebbe terminato di plasmare il pupazzo di terra che volle bello quasi quanto sé stesso, dopo che l’ebbe animato con il suo soffio vitale e reso doppio dando vita a una sua costola, apparvero, nel maschio e nella femmina, l’immagine e la somiglianza con il Creatore. Ma proprio perché ciò che è simile non è uguale, la somiglianza con Dio evidenziò nell’uomo anche la sua differenza dall’Onnipotente. E si trattò di una differenza che fu sopportata malissimo dai nostri progenitori, tant’è che il serpente ebbe gioco facile a tentarli proprio su questo: “Diventereste come Dio”. Dunque, l’uomo e la donna da sempre sentono il bisogno di annullare la loro distanza da Dio.
Ma poi sappiamo com’è andata, lo sappiamo dal mito biblico, cioè dalla teologia biblica. Rifiutando il bene voluto da Dio, l’uomo e la donna sono diventati un’immagine di Dio grottesca, deformata, contorta e la distanza da Lui è diventata invalicabile e ha incominciato a reclamare a gran voce, nei fatti, il suo bisogno di essere colmata.

La religiosità del non credente

Questo bisogno si configura normalmente come un sentimento d’incompiutezza che esige un completamento. È un sentimento che perfino il filosofo non credente Bobbio riconosce dentro di sé e in tutti gli uomini e lo chiama religiosità: dentro di noi c’è qualcosa che ci mette in tensione verso qualcos’altro. È la coscienza pre-riflessa di un luogo e di un legame originario, che non smette mai di attrarci, ebbe a dire mons. Magnoli. Se un uomo non avverte più la presenza di questo sentimento dentro di sé, è perché l’ha soffocato, perché si ferma alla materialità dell’esperienza e rinuncia al pensiero controfattuale che tutti noi possediamo.
Allora noi dobbiamo prima di tutto dare retta, seriamente, a questo desiderio: mi manca qualcosa di cui non posso fare a meno; c’è qualcosa oltre me che devo trovare, se voglio essere io, se voglio essere me stesso. Perché se io mi sento autosufficiente non ho l’esigenza di cercare, ma se mi arrampico sul filo della religiosità, di questo richiamo che fa parte di me, che m’inquieta e mi acquieta, faccio l'esperienza dell'accendersi della nostalgia di Dio e sono spinto ad approfondire, sul piano esistenziale, ciò che il Battesimo mi ha dato e cioè la possibilità di identificarmi in una figliolanza radicata in una paternità assoluta. La ricerca allora si apre a un sapere “battesimale”, che riposa dentro di noi e sussurra all'anima ciò che da sola non saprebbe e cioè che noi non saremo mai dei senza casa, mai dei senza appartenenza, perché siamo prima di tutto figli e principi, eredi del Regno di nostro Padre, dove saremo pienamente felici.

Allora vale la pena!

Allora vale davvero la pena di abbandonare tutto, di rinunciare a tutto per questa eredità, sapendo che per entrare in questo Regno bisogna semplicemente vivere da figli. In definitiva, si tratta di vendere tutto, per comperare… che cosa? Che cosa dobbiamo comperare? La fede! 
La fede sì, perché è nella fede che noi viviamo pienamente, oggi, questa filiazione divina che ci darà in eredità il Regno. La fede è l’unica moneta che ci permette di acquistare il Regno. Perché noi, nella fede, incontriamo il Figlio, che ci porta alla conoscenza del Padre nello Spirito, rivelandoci nel contempo la nostra vera identità. E questo è già vivere nel Regno di Dio, che sarà molto di più quando il nostro tempo si compirà.

Comperare la fede?

Sì va be’, ma… comperare la fede? Dai Mariarosa… Ma la fede non è un dono? Non ci è data con il Battesimo?
Certo che la fede ci è data, ma noi siamo liberi di buttarla via, purtroppo, in ogni momento della nostra vita, siamo liberi di dimenticarla, di trascurarla fino a perderla, di vivere come se lei non ci fosse. E allora? E allora si tratta di tenerla stretta, con la preghiera e i sacramenti. Soprattutto l’Eucaristia, che annulla davvero la distanza da Dio e un piede nel Paradiso, anzi due, ce li fa mettere eccome! Insomma il Regno di Dio è e sarà nostro, se vendiamo tutto per comperare il campo e la perla, cioè per acquistare la fede e con essa il luogo in cui abitano le tre Persone divine. Grazie.

N.B. Questo commento è stato chiesto all'autrice dalle suore Comboniane, nell'ambito del progetto "Elikya, la speranza del Vangelo senza confini", iniziativa bellissima, che presenta quotidianamente la Parola di Dio, orientando e dando colori nuovi e liberi alle nostre giornate, spesso intrise di fatica e di sofferenza, ma anche abitate dalla gioia di sapersi amati da un Dio che è Padre.

Mariarosa Tettamanti


Immagine di copertina tratta da Shutterstock di Bala Lush.