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Per una pedagogia eucaristica 2

Come promesso, ecco le slide e la relazione scritta "Per una pedagogia eucaristica: l'Eucaristia educa tutte le dimensioni dell'umano", per i MISCE con mandato. Seconda parte.
Per la proposta sintetica vedi il post "Pedagogia eucaristica"

L’Eucaristia educa il corpo … ma è già cuore

Incominciamo allora dal corpo, dimensione importante, sicuramente più importante di quanto comunemente si pensi. Scrive al proposito don Romano Martinelli, parlando ai MISCE del loro modo di porsi di fronte agli ammalati, ai quali portano la comunione eucaristica: “...gesto, silenzio, abito, corporeità, stile … dicono molto di più delle pur necessarie parole che introducono alla Comunione". 

L’Eucaristia educa il corpo e nel corpo educa il movimento.
- "È la ginnastica di Dio?” ha chiesto un bambino che ieri in chiesa stava imparando a genuflettersi bene e con i suoi compagni cercava di capire il significato dei diversi gesti e delle varie posture da assumere durante la celebrazione eucaristica. “Stare in piedi significa mettersi un po’ sull’attenti, pronti ad agire e prestando grande attenzione, come si fa davanti a persone importanti alle quali si rende onore; inchinarsi vuol dire riconoscere che si è davanti a Dio e che noi siamo tanto più piccoli di Lui; inginocchiarsi dice che noi vogliamo adorare Dio con umiltà e davanti a Lui siamo peccatori che chiedono perdono con fiducia; stare seduti infine è mettersi comodi e rilassati davanti a Gesù, con la confidenza che si ha con una persona di famiglia o con un amico intimo che si vuole ascoltare bene e attentamente” diceva la catechista e ad ogni spiegazione seguivano i movimenti composti dei bambini. “Ora tracciamo il segno della croce con la mano destra, che rappresenta tutta la nostra persona” continuava la catechista “e la portiamo alla fronte, da dove vengono i pensieri; al cuore, dove dimorano i sentimenti, e alle spalle, che richiamano le nostre azioni. In questo modo mettiamo tutto il nostro corpo e la nostra vita sotto la croce di Gesù.” A tratti si aveva davvero l’impressione di stare in una palestra speciale, in cui i ragazzini si esercitavano con scrupolo e gioia, osservati con amore da un Mister ancora più speciale.
E poi scambiarsi la pace con una stretta di mano o un abbraccio, battersi il petto, tenere le mani giunte, oppure allargare e alzare le braccia, con le palme delle mani rivolte al cielo, esprimendo la tensione verticale del “Padre nostro”, vivere i modi diversi di tracciare il segno della croce … Ogni gesto porta con sé ricchezze infinite di motivazione e di senso. Ma anche stare fermi quando ci si vorrebbe muovere, rimanere in silenzio quando si vorrebbe parlare, restare seduti quando si avrebbe il desiderio di alzarsi e viceversa: sono esigenze giustificate che insegnano a padroneggiare il corpo in uno stile di comportamento e di vita, che armonizza i movimenti alle parole, ai pensieri, agli affetti, alla preghiera. (Forse per questo i bambini che frequentano regolarmente la Messa fanno meno fatica ad accettare le regole quando arrivano a scuola: non tanto perché hanno imparato a stare buoni e fermi, ma perché hanno capito che ogni norma ha le sue ragioni).

L’Eucaristia educa anche i sensi
Come questo sia possibile è impossibile da vedere: noi gustiamo, vediamo, annusiamo, tocchiamo del pane, ma lo crediamo e lo diciamo carne; gustiamo, vediamo, annusiamo, tocchiamo del vino, ma lo crediamo e lo diciamo sangue. Visus, tactus, gustus in Te fallitur: “Se mi lascio guidare da ciò che vedo, o tocco, o gusto, io cado nell’inganno” recita l’Adoro te devote (traduzione di don Giovanni Moioli) e aggiunge: In cruce latebat sola Deitas, / at hic latet simul et humanitas (“Quando fosti crocifisso, il divino era nascosto; / ma qui, anche l’umano tuo ci viene sottratto”). “Come l’anima nostra rimane sulla terra in virtù del nostro corpo” scrive Maria Montessori, con un linguaggio semplice, adatto ai bambini, “la divinità rimane tra noi nascosta sotto le specie del pane e del vino"; rimane, ma è nascosta: latens deitas. E l’ostia consacrata “è offerta allo sguardo dei fedeli, perché, illuminati dalla fede, possano vedere ciò che i sensi non possono rilevare” (C. Magnoli).
È la sottomissione delle sensazioni alla fede, che permette paradossalmente di “guardare il mistero di Cristo” ; incomincia con la raccolta in unità delle percezioni sensoriali e con la precedenza data all’udito, il quale ascolta la Parola, che a sua volta suscita la fede: Sed auditu solo tuto creditur (“Posso soltanto udire, ma basta a dare sicurezza alla mia fede.”). Questo udire infatti non è solo essere informati, ma anche capire, persuadersi, accettare, lasciarsi prendere, cioè sottomettere il cuore: Tibi se cor meum totum subicit. È così che si passa dal movimento e dai sensi all’interiorità, con flusso inavvertibile e senza soluzione di continuità: come ho già detto, la partecipazione all’Eucaristia collega il soma allo spirito, attraversando cuore e mente, sanando possibili fratture e ricostruendo un’unità benefica e necessaria.
- La prima volta in cui lo portarono a Messa, Carlo era così piccolo che arrivava a malapena ad aggrapparsi con le manine al piano d’appoggio della panca, oltre il quale sporgevano solo gli occhioni spalancati. Sembrava affascinato dai gesti del sacerdote celebrante e dei lettori, dai canti, dal suono dell’organo, dalle luci, dalle volute profumate dell’incenso. Al momento dell’elevazione, la zia gli disse sottovoce: “Guarda, è Gesù!”. “Sì” rispose il bambino trattenendo il respiro e poi non si mosse più e continuò a mantenere l’espressione incantata e attenta. Al termine della celebrazione, quando il prete sparì oltre la porta della sacristia, il piccolo si rivolse costernato alla zia e col visetto prossimo al pianto disse: “È andato!” “Chi?” chiese la donna “Gesù!” rispose lui. “Ma no!” esclamò lei “quello lì non è Gesù, quello lì è don Angelo. Gesù è là, dietro quella porticina tutta d’oro. La vedi?”. Carlo annuì e il suo interesse si spostò immediatamente verso il tabernacolo. Non mostrò nessuna difficoltà a credere ciò che la zia gli stava dicendo, memorizzò attentamente le sue parole e non dimenticò mai più quale fosse il luogo in cui stava Gesù, anzi non smise più di guardarlo con un sentimento molto simile a una venerazione tutta informata dall’amore.
Carlo non sa ancora chi è Gesù, ma la concretezza delle parole e dei gesti della consacrazione hanno acceso il suo stupore, mentre l’espressione della zia, che gli parlava, gli ha fatto capire che il Signore è una persona viva e vera, ma soprattutto è uno che ha a che fare con lui e con il mondo dei suoi affetti più cari: Carlo si sta aprendo al mistero di Dio, anzi sta già vivendo a modo suo il reale proprio della fede. 

In lui, e in tutti i bambini come lui educati dall’Eucaristia, la mescolanza delle percezioni sensoriali ricomposte in unità raccoglie ed educa anche le emozioni: la sorpresa che esplode davanti a ciò che sta vedendo, il timore buono e reverenziale di fronte a gesti di cui intuisce l’importanza, la gioia sconosciuta che lo invade e lo tiene fermo al suo posto, l’interesse suscitato dalla storia che si sta dipanando sotto i suoi occhi… tutto si mescola in modo ordinato ed armonioso, inserendolo nel centro di un’esperienza multiforme e misteriosa, colma di colori, di luci, di profumi e di suoni. Vista, udito, olfatto, gusto formano una sola percezione, mentre sorpresa, arcano timore, gioia e interesse diventano un’unica emozione, e tutto si compone in un’esperienza corporea ed emotiva unitaria, che apre la porta all’interiorità e dolcemente vi si adagia.
In effetti le sensazioni sono strettamente legate alle emozioni che abitano il cuore, luogo tradizionalmente ritenuto nido della dimensione affettiva ed emotiva, anzi spesso ne sono la situazione attivante: chi vede un’ingiustizia s’indigna, chi ode un grido agghiacciante si spaventa, chi assaggia qualcosa che non gli piace prova disgusto, chi sente nell’aria il buon profumo della primavera si rallegra, chi accarezza un morente si rattrista, chi sente un richiamo inaspettato si sorprende, chi ascolta un discorso ben costruito s’interessa… e così via. Il confine fra esperienza sensoriale ed emozione è sottile: ecco perché, mentre insegna a raccogliere le sensazioni, l’Eucaristia non può non educare anche le emozioni.
(Certamente non tutti i bambini vivono l’esperienza emozionante di Carlo: sappiamo infatti che alcuni di loro non sono per nulla attratti dalla Messa. Eppure anch’essi vengono educati dall’Eucaristia, come afferma ad esempio Aldo Rossi, testimone dell’Azione Cattolica al Congresso Eucaristico Nazionale tenuto a Milano nel 1983:

Da piccolo, i miei genitori mi accompagnavano a fare la comunione; così, con un po’ di autorità, quasi a strattoni: eppure c’era sotto un impegno, del quale non potrò mai ringraziare abbastanza, di sincera pedagogia educativa e di catechesi che in seguito svelerà tutto un suo contenuto di sapienza e di animazione viva dello Spirito Santo.
Si potrà obiettare che questa testimonianza è datata … e allora eccone una attuale. Questa mattina Aurora, nove anni, mentre la portavo a Messa mi ha detto: “A me non piace andare a Messa, ma mia nonna mi obbliga e allora mi piace”. Il ragionamento dal punto dal punto di vista infantile non fa una piega. Aurora sa che la nonna le vuole bene ed è desiderosa di compiacerla e imitarla: dunque è meglio che ciò che piace alla nonna piaccia a anche a lei.

Dall’educazione del corpo alla virtù del raccoglimento

Il risultato dell’educazione eucaristica si concretizza nelle virtù: si tratta di atteggiamenti cristiani e quindi pienamente umani. Essere cristiani infatti non significa andare oltre l’umano, né posizionarsi un gradino sopra o sotto gli altri: essere cristiani vuol dire vivere l’umanità in tutti i suoi aspetti, in profondità, in bellezza. Potremmo dire che significa essere “normali”, cioè uomini e donne che vivono la normalità disegnata dal progetto divino e quindi scritta nel DNA di ognuno di noi.
Purtroppo molti cristiani, di fronte all’Eucaristia, sono ciechi, sordi e muti: “La gente è sorda e di conseguenza diventa muta, accoglie l’Eucaristia, ma poi fuori non annuncia, non canta; la gente è cieca perché non sa riconoscere il suo Signore …” . Il piccolo Carlo invece, continuando a frequentare la Messa e ricevendo la Comunione eucaristica, sta imparando la virtù del raccoglimento … e lo fa senza accorgersi, con la semplicità dei santi.
Ma che cos’è il raccoglimento? Ce lo racconta Laura:

- Prima s’impara il silenzio interiore. Poi si apprende che non è accostarsi, ma lasciarsi accostare, di più, lasciarsi abitare in maniera continuativa. In altre parole, diventare capaci di mantenere costantemente la consapevolezza della presenza divina attiva in noi. (…) Accostarsi all’Eucarestia è ricevere una carezza illuminante, prova ne sono gli sprazzi di intuizione che ci attraversano nel momento del raccoglimento. Fotogrammi della tua vita ti sfilano davanti come in un film, e diventi capace di ricomporli con una saggezza e una verità prima sconosciute. Apprendi nuove Possibilità, nuove Vie, nuove Parole per raccontarli.
Possiamo allora dire che il raccoglimento è la virtù di chi è capace di abitare la propria interiorità: la persona raccolta, proprio perché sa armonizzare sensazioni ed emozioni ed è padrona del proprio corpo, può costruire un mondo interiore forte e quindi capace di reggere agli urti della dissipazione che viene da fuori; è in grado di stare sola con se stessa e a lungo in chiesa davanti al tabernacolo, sa frequentare la Parola di Dio, sa “entrare e uscire dal proprio io interiore con equilibrio”. Essendo entrata in possesso del proprio io, ha acquisito quell’indipendenza interiore che non si scuote e non si lascia sconvolgere da nulla. È l’uomo dalla pacatezza inusuale e dalla pace visibile e contagiosa, sempre a contatto con il luogo in cui dimora il Signore e dove impara a diventare come Lui: questa è la promessa e una delle mete del MISCE che si lascia educare dall’Eucaristia.

L’Eucaristia educa il cuore

Il cuore è metaforicamente ritenuto anche il luogo in cui nascono e vengono custoditi gli affetti e i rapporti interpersonali. Non è possibile che non sia così, perché, se è vero che sensazioni ed emozioni sono strettamente legate, è altrettanto vero che le emozioni sono intimamente connesse con le relazioni. A questo proposito, lo psicologo e ricercatore Frijda (1927 – 2015) afferma che una delle funzioni delle emozioni è proprio quella relazionale: le emozioni sono modalità di disposizione all’azione relazionale, sia sotto forma di tendenze a stabilire, mantenere o rompere un rapporto interpersonale, sia sotto forma di modalità di preparazione al momento relazionale stesso. Vediamo a questo proposito qualche esempio. Se la presenza di una persona ci dà gioia e contemporaneamente ci comunica la sensazione di poterci fidare di lei, in noi scatterà l’amore, un’emozione complessa e forte, che chiederà con urgenza di diventare prossimità. Ma se in presenza di un altro individuo avvertiremo del timore, insieme alla possibilità di fidarci, facilmente nascerà nel nostro cuore la sottomissione, mentre la paura più la sorpresa potrebbero suscitare soggezione; allo stesso modo la rabbia più il disgusto possono generare il disprezzo e così via. Amore, sottomissione, soggezione, disprezzo: sono sentimenti che fanno parte delle relazioni. Semplificando molto potremmo pertanto dire che, dal punto di vista psicologico, il percorso corpo/cuore parta dalle percezioni sensoriali e arrivi alle relazioni, passando attraverso le emozioni. È già così nel neonato: la percezione dell’accudimento provoca benessere e fiducia e diventa base propizia per una relazione parentale amorosa. Su un altro piano, il nostro Carlo, dopo aver sperimentato il coinvolgimento dei sensi e la gioia profonda per un incontro ancora misterioso, dopo aver saputo, guardando gli adulti di riferimento, che di Gesù si può fidare, ha incominciato a vivere un amore “più grande”. “Con Gesù si sta bene” ha detto alla mamma e le ha chiesto di portarlo in chiesa. Sul terreno del sentire, nelle cui viscere germogliava la religiosità, ora incominciano a fiorire la fede e l’amore.
Questa dinamica, che ci dice l’importanza del corpo e delle emozioni per qualunque azione pedagogica, è conosciuta bene dalla liturgia, la quale interpella i sensi
 e quindi, come abbiamo visto, la dimensione emotiva dell’uomo, finalizzandola alla relazione con Dio e con i fratelli. 
A sua volta questa relazione si chiama carità, cioè amore, e l’Eucaristia ne è la grande pedagoga, a cominciare dalla nascita dell’ascolto (una delle più importanti competenze di tipo relazionale), passando attraverso gli atteggiamenti che danno fascino a tutti i rapporti (la capacità di ringraziare, la libertà di offrire, la bellezza dell’intercedere e di comunicare in profondità empatica) e terminando nel comandamento nuovo di Gesù, reso tangibile dall’evidenza felice del gesto di pace. D’altro canto, aprirsi all’amore di Dio vuol dire essere portati nella sua stessa direzione, cioè verso i fratelli: non abbiamo altro modo di amare Dio se non questo (don G. Moioli). Ecco perché l’Eucaristia non può comporsi con l’egoismo, la divisione, la lotta, il giudizio, la condanna verso gli altri:
- Non si può accedere all’altare con l’odio nel cuore o col rimorso di aver offeso un fratello e non si può lasciare la mensa del Signore dimenticando il precetto nuovo che egli con intenzionale gravità, dandosi a noi, ci ha trasmesso: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”. L’Eucaristia diventa in noi la grande sorgente dell’amore fraterno …” (Baggio).
La frequenza alla Messa quotidiana e le lunghe ore di adorazione davanti al tabernacolo, nel contatto con “il sacramento eucaristico che è memoria dell’amore e vincolo di carità” , non possono non far germogliare nel cuore del MISCE questa virtù, la "virtù che arde", come la chiamava il cardinal Martini: “Noi viviamo soltanto se bruciamo”. Nel profondo della sofferenza del malato e dei suoi famigliari, creando con loro la cura trepida e sollecita per la Parola di Dio e il Pane della vita, il MISCE copia Gesù e come Lui opera, donando la sua vita: sconvolgendo la logica comune dell’ampio individualismo odierno e della competizione, l’Eucaristia forma ai valori più alti, quali la solidarietà, l’uguaglianza tra gli uomini, la preferenza per i poveri, la condivisione, il senso di responsabilità nei confronti dei fratelli. Continua il cardinale Martini: 
- La carità cristiana si esercita nelle cose più semplici… un sorriso gratuito, un gesto di comprensione… La carità è eccelsa per sé stessa e rende sublimi le cose più piccole… Ecco, non occorrono cose grandi: è questa carità piccola ed eccelsa che ci viene chiesta, una carità che “si dilata nella misura in cui comprendiamo come Gesù ci ama, come ama e tratta i piccoli, i poveri, i malati…” “La carità di Gesù è una realtà piena, che afferra l’uomo interamente… è servizio, accoglienza, condivisione (…) Di questa divina e sorprendente carità, l’esperienza cristiana è chiamata a farsi figura, traccia visibile, parola tra gli uomini, trasparenza.
Educando il cuore, l’Eucaristia ci educa ad essere donne e uomini di Chiesa, cioè a vivere la comunità come esperienza, dinamismo e realizzazione dell’amore di Dio in mezzo a noi, non come giardino chiuso, ma come varco sul mondo in comunione fraterna con tutti gli uomini. Una comunità che si lascia plasmare dall’Eucaristia comprende, anzitutto, che Gesù vuole attirare a sé tutti gli uomini. Diventa quindi una comunità che va sempre oltre sé stessa, si sente mandata da Cristo a ogni uomo, non si dà pace finché il Vangelo della Pasqua abbia raggiunto tutte le situazioni umane. Continua il cardinal Martini:
- Il culto eucaristico c’insegna il segreto per il rapporto comunitario: la gioia che da esso promana sta più nel dare che nel ricevere (…) Esso c’insegna che, donando, si riceve da Dio più e meglio di quanto avremmo potuto acquistare o desiderare secondo i nostri piani o le nostre pretese.
Non solo i bambini, ma anche i nostri malati e gli anziani vanno educati all’apertura agli altri e alla carità universale, come li ha vissuti Gesù. Se a loro, ad esempio, affidiamo delle missioni di preghiera, li abituiamo a uscire da sé stessi, a trascendersi nell’amore, a sentirsi utili, a percepire come preziose le ultime battute della loro vita, a sapersi sempre in compagnia e collaboratori di Gesù, a pieno titolo inseriti nella Chiesa … Insomma li aiutiamo a scoprire la dimensione missionaria della malattia e della debolezza. (Vedi don R. Martinelli).
La carità cristiana a sua volta irriga e feconda altre virtù, che si dischiudono nelle relazioni con chi abita la fragilità. Vediamone qualcuna.

Le virtù che nascono sul ceppo della carità

Sul ceppo della carità germogliano e fioriscono molte altre virtù che ne completano il volto. Sono tutte belle, ma credo che le più affascinanti siano la capacità di dialogare, la generosità, la pazienza, la purezza, la disponibilità, la tenerezza, la cortesia, il rispetto, la comprensione, la gratitudine e la gratuità. Entriamo brevemente nel significato di ciascuna.
Il dialogo è un’arte: è autentico quando è libero e sincero (l’ipocrisia strappa le radici al dialogo e lo distrugge) e quando è capace di costruire comunione con l’interlocutore. 
La generosità, invece, come afferma il Compte Sponville , “si situa nel punto d’incontro tra la magnanimità e la liberalità” , cioè tra il dono dei propri beni e il dono di sé … e li offre entrambi. A questo proposito affascina e istruisce la lavanda dei piedi dipinta da Sieger Koder, nella quale Gesù è accucciato davanti a Pietro e tiene tra le mani una bacinella colma d’acqua. Ebbene, in quest’acqua non ci sono soltanto i piedi del riottoso Simone, ma anche il viso del Maestro che si specchia; il messaggio è chiaro: “Non sto soltanto lavando via la polvere dal tuo corpo, Pietro: ti sto dando me stesso”.
La carità si nutre di pazienza, anzi di pazienze, come afferma Madeleine Delbrel:

- Le pazienze sono briciole di passione, di martirio, che hanno lo scopo di uccidere lentamente il nostro io per la gloria di Dio… Quando vengono, in ranghi serrati o in fila indiana, dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi… Non ogni martirio è sanguinoso: ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.
La carità esige purezza, “in quanto virtù opposta all’interesse, all’egoismo, all’avidità, cioè a tutto ciò che di sordido c’è nell’io” (Guardini)   e presuppone una grande disponibilità, cioè la predisposizione a essere disturbati, a recarsi al capezzale di un malato che sta male e vuole vederci, a recitare un rosario per un defunto in un momento in cui avremmo altro da fare, a perdere del tempo per sentire storie che abbiamo già ascoltato mille volte, ad aiutare un famigliare in difficoltà nell’accompagnare un malato per una visita medica, ad accorgerci di chi sta male e chiamare il medico, a trovare del tempo per la scopa e lo strofinaccio (sempre che tale servizio non disturbi e non mortifichi chi lo riceve), a informare e sensibilizzare i presbiteri sulla situazione degli infermi che visitiamo… a dare di più di ciò che ci è chiesto, con discrezione, con delicatezza, con tenerezza
Quest’ultima virtù nasce da una sensibilità capace di favorire l’incontro tra due storie e due cammini di fede, diversi ma paralleli e complementari. Il malato al quale portiamo l’Eucaristia non può essere solamente una persona che incontriamo settimanalmente, uno che è entrato per caso nella nostra vita: è uno di famiglia, sempre presente nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere, una persona da avvolgere nella dolcezza e da consolare con la sapienza di Dio. La carità veste l’abito della festa se si abbiglia di una tenerezza capace di ascolto, di piccoli gesti, di silenzi gravidi di parole non dette eppure in qualche modo espresse, capace di una consolazione che educhi all’affidamento. Una tenerezza che esprima un amore creativo, esteso anche ai famigliari degli ammalati, e disegni il volto di una Chiesa ospitale. È la stessa tenerezza che contempliamo in Maria nella visitazione: nel Ghirlandaio la donna più giovane, Maria, si china sulla più anziana che si è inginocchiata davanti a lei, le mette le mani sulle spalle, la guarda con infinita tenerezza; in Raffaello, invece, è la giovane Maria che china il capo di fronte alla cugina anziana, in segno di rispetto, ma anche con la gioia pacata di chi si sente amata e compresa; accetta la tenerezza di Elisabetta e risponde con una tenerezza altrettanto profonda e partecipe. Sono i due movimenti che compiamo anche noi nel nostro pellegrinare con l’Eucaristia tra le mani: solleviamo e siamo sollevati, alziamo e siamo alzati, amiamo e siamo amati, ma è sempre la tenerezza di Dio quella che passa attraverso noi e quella che ci raggiunge attraverso le mani nodose dei nostri vecchi e attraverso i loro occhi presbiti. È così che diventiamo memoria e racconto dello Spirito, trasfigurati e conformati sulla concretezza dell’umanità di Gesù, il quale è stato molto attento ai malati e ha mostrato una tenerezza sollecita e misericordiosa nei loro confronti.
La cortesia per Guardini è  “l’amore piccolo di tutti i giorni, per il quale il tempo c’è sempre”. Il termine viene dalla parola “corte” e allude al riguardo che i cortigiani dovevano avere per il re: la cortesia dunque rende l’altro sovrano della nostra vita, sa che l’altro, chiunque sia, dev’essere onorato, perché è depositario di una dignità che gli viene dall’essere immagine di Dio. La cortesia copia l’atteggiamento da tenere con i fratelli dal modo di fare di Dio, che lascia l’uomo libero, “non lo spaventa, non lo seduce”. Essa ha uno sguardo contemplativo, proprio come quello divino: riconosce nell’altro il bene e gli fa sentire che questo bene è apprezzato. Tace dei suoi pregi perché non scoraggino l’altro. Si premura di evitare imbarazzi e di allentare tensioni, previene le possibilità di urti, di reciproci danni od offese, perché non abbia ad affermarsi nulla di negativo. La cortesia onora i fratelli, poiché sente e vede le sfumature della loro anima, e si sente responsabile di loro. È sensibilità per la forma, contro il realismo che si degrada a rozzezza. Ha bisogno di tempo: per essere cortesi occorre indugiare, aspettare, andare per vie indirette, aver riguardo, porre in second’ordine se stessi. Verso Dio, la cortesia si esprime in un atteggiamento “conveniente” interiore ed esteriore: “ogni pensiero e ogni parola che concerne Dio ha da svolgersi come si deve. La cortesia sa che la vita ama le cerimonie”. Occorre quindi avere una cura infinita per il nostro piccolo rito, preoccuparci dei particolari (i ceri, il corporale, il crocifisso, la teca pulita e decorosa …), occorre educare i famigliari degli ammalati a preparare un ambiente degno della grandezza di Dio, magari regalando noi stessi una tovaglietta, dei candelabri, un crocifisso se in famiglia non c’è. E, lo ripeto, anche il nostro modo di presentarci e l’abbigliamento devono adeguarsi al momento solenne che stiamo vivendo.
Il rispetto è la virtù che prende sul serio le opinioni degli altri: magari le contesta, ma sempre con riguardo, perché sa che ha che fare con una persona e non con delle teorie astratte. È anche il pudore verso la vita degli altri, che impone “di fuggire il piacere di lacerare i veli, di mettere a nudo a tutti i costi la vita delle persone”.

La comprensione è l’arte di capire che “dietro un sentimento esibito o un atteggiamento espresso si cela dell’altro, e forse dietro a questo dell’altro ancora”. Chi sa veramente comprendere vede anche il contesto nel quale avvengono certi gesti, li inscrive nella totalità della persona e capisce il perché di certe intemperanze. Capita talvolta che gli anziani, soprattutto quelli appena arrivati in una casa di riposo, siano bruschi, ci trattino male, ci caccino in malo modo. La comprensione in questo caso ci suggerisce di capirli, di vedere il loro disagio dietro gli atteggiamenti indisponenti, di comprendere che è proprio il loro vissuto di sofferenza a farli agire in questo modo: la comprensione è anche la libertà che io lascio all’altro di essere sé stesso, è rinunciare alla pretesa che l’altro faccia ciò che io gli chiedo.
Essenziale è la gratitudine: “Ogni rapporto con l’Eucaristia deve essere una scuola di ringraziamento, una scuola che insegna a introdurre nella vita questa dimensione” scrive Moioli. La gratitudine è dono e condivisione, è piacere e “letizia accompagnata dalla sua causa”, come direbbe Spinoza, è quindi una conseguenza che diventa sollecitudine attraverso la quale cerchiamo di fare del bene a chi ci ha recato un beneficio. Sappiamo vedere il grande dono che i nostri anziani ci fanno ogni volta che li incontriamo? Il dono della confidenza, ad esempio, il dono dell’accoglienza, della comunicazione nella fede, di un esempio di pazienza e sopportazione del male non indifferenti. Dobbiamo la stessa gratitudine ai loro famigliari, costretti a rompere schemi di giornate verosimilmente cariche di fatica per ritagliare spazi temporali adeguati all’incontro con Gesù Eucaristia. Sarebbe buona cosa quindi ricordarci di portare ogni tanto un regalino: possono bastare un’immaginetta, un piccolo libro, un fiore … e poi, sempre, quando ci ringraziano, rispondiamo con un bel “Grazie a voi”.
La gratuità: come afferma Bruno Maggioni, “…La Chiesa e il cristiano, se vogliono ridisegnare Gesù devono improntare alla gratuità tutte le forme di servizio all’uomo…”. La caratteristica della gratuità è “l’eccedenza, perché essa non è misurata sul bisogno dell’uomo, ma sulla ricchezza della generosità di Dio”. E infatti, portando la comunione eucaristica noi offriamo agli uomini “un dono e una notizia che vanno oltre le loro richieste”.
La carità, che di giorno in giorno ci conduce verso una capacità di amare sempre più ampia, è dunque il punto di arrivo della sintesi di altre virtù e di esse è la più importante. A questo proposito ha scritto una bella pagina Madeleine Delbrel:

- La carità ci salda inseparabilmente a Dio, è l’unica soglia, l’unico ingresso all’amore di Dio. A questa porta giungono tutte le strade che sono le virtù. … Una virtù che non termini nella carità è una virtù diventata stolta. Intorno al monte di Dio essa girerà invano, senza poterne scalare le pareti …. Perché capita per le virtù come per le vergini sagge … Il solo punto vulnerabile, la sola breccia, il solo varco è l’amore di questi poveri esseri simili a noi, talvolta poco amabili perché troppo simili alla nostra personale mediocrità.
Il che è come dire con San Paolo che non possederemo nessuna virtù se non avremo la carità, cioè se non vivremo la dedizione alla maniera di Gesù, come un amore capace di andare in cerca dei bisogni umani, di lasciarsi afferrare dalla loro urgenza e di valorizzare le risonanze che suscitano, utilizzando sì gli strumenti dell’indagine sociale che li evidenzia, ma anche trascendendoli per scoprire aspetti nuovi e insospettati.

L’Eucaristia educa la mente

Quante cose impara frequentando la Messa il nostro Carlo, che nel frattempo è cresciuto ed è diventato chierichetto. Prima fra tutte apprende la storia di Gesù nel contesto dell’anno liturgico e in questo modo la sua conoscenza del passato si arricchisce della stupefacente dimensione del presente celebrativo: nella Memoria dell’Eucaristia un avvenimento lontano nel tempo avviene ora, qui! L’apprendimento del bambino è reso profondo dal silenzio, che gli viene amabilmente imposto dallo stesso presentarsi gioioso di Dio. Contemporaneamente egli impara a pregare: chiede, ringrazia, domanda perdono. Memorizza il “Padre nostro”, il “Credo”, il “Confesso”, il “Gloria”. Nel frattempo anche il suo linguaggio si arricchisce e diventa sempre più raffinato, appropriandosi del lessico proprio della celebrazione e della nomenclatura relativa ad oggetti e paramenti sacri, mentre le icone e i simulacri che vede in chiesa nutrono il suo senso estetico e muovono i sentieri dei collegamenti fra campi di indagine diversi, migliorando costantemente la sua innata predisposizione alla creatività. Poco per volta, attraverso la riflessione favorita dal silenzio, approda anche a una migliore conoscenza di sé, della consistenza dei suoi desideri e delle dimensioni reali del suo essere: impara a guardarsi con gli occhi di Gesù e durante il rito penitenziale individua le sue mancanze, riconoscendosi felicemente bisognoso del perdono del Padre. A volte sembra di vedere la sua mente all’opera, mentre completa e arricchisce le mappe concettuali che vi dimorano.
 “Il mistero eucaristico sollecita le facoltà intellettive (…) la fantasia ed il cuore …” ebbe a dire a ragione Giovanni Paolo II al Convegno Eucaristico di Milano. Ciò che lega e dà senso agli apprendimenti di Carlo però è il legame continuo con l’affettività. Le sue conoscenze sono intrise di amore e di riconoscenza per Gesù… ma d’altra parte nei bambini la comprensione del reale avviene sempre attraverso il filtro degli affetti. 
Arrivato alla preadolescenza, Carlo, continuando a unire il cuore alla mente nell’adorazione eucaristica, incomincerà a chiedersi quale sarà la sua vocazione e sperimenterà la tenera preoccupazione di Dio per la sua vita… Ma noi ora lo salutiamo qui, sulla soglia di una decisione solo sua e di Gesù.
Ma che cos’è la mente? Comunemente con questo termine si vuole indicare la sede delle facoltà cognitive (intuizione, pensiero, memoria, creatività, ragionamento…), volitive ed estetiche. In che modo l’Eucaristia educa tutte queste dimensioni? Ho già parlato di intuizione, di pensiero, di memoria, di senso della bellezza, di creatività, leggendo attraverso Carlo l’esperienza dei bambini, ma per ciò che riguarda il ragionamento la cosa è più complessa, perché quando si ragiona si procede in genere per problemi e soluzioni.
In questo caso, dovremmo dire che l’Eucaristia educa l’intelligenza aiutandola a scoprire, accettare e superare i suoi limiti. Mi spiego meglio. Ad un certo punto del conoscere la corsa della scienza si ferma, non è più in grado di procedere, si scontra contro il muro invalicabile delle domande esistenziali: “Il mondo è stato fatto da qualcuno? Se sì, da chi?” e se qui forse la logica umana avrebbe qualcosa da dire, se non altro per una specie di esclusione (è più logico che un creatore/ordinatore ci sia che non il contrario) per le domande che seguono nessun tipo di ragionamento potrebbe soccorrerci: “E noi, da dove veniamo e perché viviamo? La morte è la fine di tutto?”. 
La Bibbia, che ci viene narrata e spiegata durante la liturgia della Parola, risponde a queste domande, ma lo fa a partire non più dalla ragione scientifica o puramente speculativa, che pure non nega, ma dalla Rivelazione, cioè dall’Unico in grado di rispondere. Il regalo che l’Eucaristia fa alla ragione è dunque la scoperta della verità di sé stessa e l’invito ad affidarsi ad un Oltre che essa non include: l’intelligenza umana raggiunge la sua pienezza nell’intelligenza della fede. E in effetti noi non abbiamo scelta: o viviamo nel baratro del non senso o ci affidiamo alla fede. “C’è qui una cosa estremamente profonda” scrive don G. Moioli: “il rapporto dell’uomo con la verità” e quindi con la libertà, la quale “non inventa la verità, ma aderisce ad essa ”, modellando così, secondo Martini, i modi e i criteri con cui l’uomo individua il centro della propria esistenza. La verità infatti si propone come il senso autentico della vita, che possiamo rendere nostro soltanto scegliendolo: essa chiama la volontà dell’uomo e mette in gioco la sua decisione.
Purtroppo nelle case di riposo che frequentiamo nel corso del nostro ministero, noi incontriamo spesso una mentalità, cioè uno stile interpretativo della vita, che ha perso la novità della fede e con essa “la certezza di un compito unico affidato a ciascuno” di noi: “Che cosa ci faccio ancora qui, non sono più utile a nessuno, creo solo problemi, meglio morire …”. Questo è ragionare secondo il mondo, non in antitesi con il mondo, come si configura il “ragionamento di fede”. Ora, per controbattere con la vita questo modo così riduttivo d’interpretare la vita stessa, occorre essere plasmati da un pensiero forgiato dalla Parola di Dio e quindi continuamente attinto all’Eucaristia, “mezzo di istruzione privilegiata per imparare gradualmente l’umano” (don R. Martinelli).

- Attraverso l’Eucaristia impari a conoscere gli altri e la vera natura di cui siamo fatti. Impari delle possibilità nuove di comprendere e approcciare te stesso e gli altri. Impari a desiderare di cambiare, di modificare le tue prospettive. (…) Il cuore così educato diventa la tua bussola. Ma non accade in un attimo. Non c’è un numero di Comunioni stabilito, come accade per gli anni scolastici. Per ognuno penso sia differente. In qualche modo la Fede è anche questo accostarsi e aspettare di conoscere, di ricevere una Rivelazione che ti permette di familiarizzare con la Salvezza , attraverso l’approdo a un’intelligenza sempre più viva e penetrante del mistero celebrato. (Laura Monteleone)
Certamente per accettare il “ragionamento della fede” ci vuole la virtù dell’umiltà. Al proposito, riprendendo le prime pagine della Bibbia come si è fatto all’inizio di questa relazione, Romano Guardini scrive:
- C’è anzitutto la verità, una realtà sulla quale riposa ogni ordine dell’esistenza … Una realtà di fatto che Dio soltanto è Dio e che l’uomo è una sua creatura e immagine … che Dio … è creatore e Signore e l’uomo invece una realtà creata … Contro questo ordine si è sollevato già l’uomo primo quando gli venne insinuato di voler essere come Dio e contro di esso continua fino ai giorni nostri la ribellione di grandi e di meschini, di geni e di chiacchieroni.
Ebbene, “Da questo amore di verità nasce l’umiltà” dice Andrè Compte Sponville nel suo "Piccolo trattato delle grandi virtù". Di fronte a Dio che si dà nelle nostre mani fidandosi di noi ben oltre la fiducia che noi abbiamo o non abbiamo in noi stessi, nasce la vera umiltà, che non è un sentimento d’inferiorità e non ha nulla a che vedere con la carenza di auto stima, non è vergogna di sé e non è rimorso. L’umiltà è conoscerci come ci conosce Lui, scoprire dentro di noi bassezze inimmaginabili e non esserne schiacciati, perché Dio è innamorato persino di queste bassezze. Scoprirci indegni di tenerlo tra le nostre mani e tuttavia degni di portarlo, a nome della comunità, ai suoi poveri. Umiltà è vedere il proprio peccato e sentire il bisogno commosso di correre da Lui a chiedere perdono, sapendo che non ci verrà negato, è sentirsi indifferenti a ogni pretesa di diversità valoriale tra gli uomini. L’umiltà è il vestito di Dio, che si è incarnato, si è sporcato di terra, di sangue e di carne e perciò deve diventare anche il nostro vestito, quello di tutti i giorni e anche dei giorni di festa. “L’umiltà è una virtù umile: dubita perfino di essere una virtù”, scrive ancora il Compte Sponville: “Essa rende le virtù discrete, come ignare di sé stesse, quasi negate …”. L’umiltà è infine riconoscenza per ciò che Dio fa attraverso di noi e riconoscimento sereno dei nostri limiti e delle nostre potenzialità. A questo ci educa l’Eucaristia:
- Attraverso l’Eucaristia impari che puoi farcela solo un passo alla volta. Impari che cadrai, tornando miseramente indietro. Impari che potrai sempre ripartire. Impari a farti accompagnare dalla Presenza che si offre senza sosta. … È come camminare sulla vertigine dell’Eterno. (Laura M.)
Anche la speranza ha a che fare con l’educazione dell’intelligenza attraverso l’Eucaristia, perché riguarda una delle domande alle quali il ragionamento che prescinde dalla fede non sa rispondere: “La morte coincide davvero con la fine dell’uomo?” È una domanda fondamentale per molte delle persone a cui portiamo l’Eucaristia. Questi nostri amici sono ormai di fronte alla fine, hanno superato l’ultima fermata prima del capolinea e, proprio per la serietà della situazione, è stupido e dannoso ricorrere a frasi consolatorie che rischiano di essere banali: bisogna invece avere con loro il coraggio di andare al centro del problema, parlando semmai del paradiso. Ci sono animatori di case di riposo che tutti i giorni invitano clown, cantanti, ballerini, nell’illusione di aiutare i degenti a vivere meglio: non si accorgono che cercano soltanto, con poco successo, di spostare il problema. Quale differenza con la gioia della speranza cristiana, che spalanca gli scenari luminosi dell’eternità e quindi recupera l’esistere nella sua pienezza: attraendo nel mistero pasquale ogni momento della vita e perfino la morte, cancella nei fatti il concetto di fine. Dobbiamo colmarci di speranza se vogliamo comunicarla, se vogliamo aiutare gli anziani ad accogliere la Parola anche quando questa sembra debole, priva di risposte vere, se vogliamo aiutarli a resistere alla tentazione di voler cambiare a tutti i costi il piano di Dio col proprio. Ma che cosa vuol dire sperare per chi vive la stagione invernale della vita? È sicuramente trovare il coraggio di lasciare il passato, di abbandonare la nostalgia per ciò che c’era una volta, almeno nella misura in cui questa impedisce di vedere le cose nuove che il Signore ogni giorno prepara per i figli che ama. In fondo, i nostri anziani da noi si aspettano innanzitutto che li aiutiamo a vedere la bellezza del Futuro che li attende. Per questo occorre innanzitutto mostrare il Crocifisso, “la gigantografia di tutte le congiure contro la speranza” (Don B. Maggioni). E in effetti Gesù ha sperimentato tutte le ragioni contro la speranza: l’ostilità, l’abbandono, l’insuccesso, una vita spezzata, una missione incompiuta … Eppure nessuna privazione è riuscita a scoraggiarlo e così ha potuto regalarci una speranza “sottratta agli alti e bassi della vita” , esclusivamente fondata sul disegno di Dio che non si spezza nonostante le forze del male, perché è Lui che “ha in mano la carta vincente” . È questa la buona notizia da portare sempre con noi come viatico quotidiano per i nostri malati, perché comprendano che nell’Eucaristia “la morte non è più morte, ma soltanto il passaggio da una Chiesa a un’altra Chiesa, dalla Chiesa del possesso eucaristico alla Chiesa del possesso eterno di Dio”:
- Alla fine, ricevuto il viatico santo del corpo di Cristo, sulle spalle del buon Pastore, entreremo ad uno ad uno nell’ovile eterno; cadrà dunque alla fine anche questo sottile velo di pane che è pegno della visione futura e allora vedremo Cristo così com’è, faccia a faccia e il Signore sarà tutto in tutti per sempre. Amen. (Boccadoro, dal Congresso eucaristico nazionale a Milano).
Le persone che incontriamo devono vederci come incarnazione concreta della fede e della speranza, se vogliamo che vedano Gesù che si compiace di specchiarsi in noi. Allora la fede e la speranza insegneranno al malato il buon uso della malattia, educandolo a riconoscerla “come guado e passaggio” (don R. Martinelli): dal chiedersi il perché della sofferenza egli può arrivare a domandarsi quale sia lo scopo della sofferenza stessa (“Compiere nel mio corpo ciò che manca alle sofferenze di Cristo”, diventare salvatori insieme a Gesù, come dice San Paolo); dalla preoccupazione per la salute personale può approdare allo slancio apostolico ("Offro la mia sofferenza per la salvezza dei fratelli"); dalla predisposizione all’egocentrismo e alla chiusura può passare “all’apertura degli orizzonti della Chiesa”. Dobbiamo convincerci e convincere gli altri che anche nell’ultima stagione dell’esistenza "il bello della vita deve ancora venire" (don R. Martinelli)
e guardare con fiducia e desiderio al paradiso: per questo occorre ancorarci e ancorare all’Eucaristia.

L’Eucaristia educa lo spirito, cioè tutto l’uomo

Siamo così arrivati al punto più in alto della nostra mappa: nel credente che vive “l’obbedienza del lasciarsi fare ”, l’Eucaristia educa lo spirito, cioè il luogo della relazione con Dio e dei valori che ne derivano, contro lo sgretolamento della coscienza morale e contro l’intossicazione provocata dalla suggestione contagiosa per l’uomo d’oggi di essere il centro, orgoglioso e disperato, di tutto. (Dal Convegno eucaristico citato). In realtà ne abbiamo già parlato lungo tutta la relazione: che cosa sono il raccoglimento, l’umiltà, la fede, la speranza e la carità se non modalità di rapportarsi a Dio e sede dei valori umani più grandi? Esse disegnano “un’antropologia vera”, come scrive il cardinale Baggio: attivando ogni energia e potenzialità umana, l’Eucaristia dice la verità dell’uomo, creato come immagine di Dio, deformata da Satana e riportata all’originario splendore dalla nuova immagine di Dio che è Gesù Cristo. A questo proposito, ci rimangono forse altri due atteggiamenti che la frequenza assidua all’Eucaristia non può mancare di educare nel cristiano e nel MISCE: si tratta della serietà e della semplicità.
Alla serietà è sottesa la consapevolezza che, mentre io porto l’Eucaristia ai malati, l’Eucaristia e i malati portano il mio vissuto personale sempre più in fondo e al centro di un mistero insondabile e tuttavia reso conoscibile dall’Amore di Dio. Allora è chiaro che questo non può essere il servizio del tempo libero, non è un’esperienza come tante, non è un servizio a domicilio in cui ciò che importa è che arrivi l’oggetto utile a casa, è invece un’esperienza totalizzante, fino al punto che io non potrò più pensarmi come persona se non a partire da questa stessa esperienza, che coinvolge tutta me stessa e tutta la mia vita. Questa serietà, questa consapevolezza, non possono che approdare a un’immensa riverenza, che è più del rispetto: è la venerazione dovuta soltanto a Dio.
La semplicità è invece definita dal Compte Sponville 
- la virtù di chi non si preoccupa troppo di sé: è la virtù della spontaneità, della coincidenza immediata con sé stessi, è disinteresse, distacco, incuranza di dimostrare, di sembrare, di prevalere; è candore, è gioia sorgiva, è oblio di sé … è la verità della virtù e la scusa dei difetti, è la grazia dei santi e il fascino dei peccatori … Il semplice è colui che non finge, non calcola, è senza artifici e senza segreti. La semplicità è serietà di vivere, è poesia, è infanzia dello spirito … è la virtù degli uccelli del cielo e dei gigli dei campi … La semplicità è la virtù dell’io alleggerito, purificato e liberato, è la virtù di chi non si ripiega su se stesso, perché ha smesso di giudicarsi e lascia questa operazione a Dio, di chi non si prende né sul serio né sul tragico, di colui che tira diritto per la sua strada con l’anima in pace, senza nostalgia e senza impazienza … non cerca niente, perché, avendo Dio, ha tutto. È la virtù dei saggi e la saggezza dei santi.
Mi sembra il ritratto perfetto dell’uomo educato dall’Eucaristia, “criterio e principio di una vita nuova”, il cui punto di arrivo è il profilo alto di una personalità di grande leggerezza ma per nulla superficiale, una persona dimentica di sé eppure totalmente presente a sé stessa, in comunione spontanea e pacificata con gli uomini e con le cose, eppure ricondotta all’essenziale, perché tutta concentrata in Dio. È il risultato di ciò che afferma il cardinale Martini: 
- nell’Eucaristia tutto ciò che è umano (capacità, entusiasmo, genialità …) viene assunto e insieme purificato, rigenerato e approfondito, valorizzato e dotato del suo vero fondamento e del modo più autentico di attuarsi ed espandersi. In questo senso l’Eucaristia diventa la forma vera dell’esistenza. Essa giudica la vita, divenendo principio di esigenze di comportamento ma, più che rivolgerci un discorso morale, c’insegna a superare la legge con la Grazia, che fa di noi degli uomini spirituali, consentendoci di essere ciò che veramente siamo nelle intenzioni di Dio.
Come dichiara il cardinale Ugo Poletti, l’Eucaristia allontana dall’uomo l’effimero e l’autosufficienza presuntuosa e lo aiuta a ritrovare un equilibrio che è giustizia, pace, perdono, riconciliazione e serenità, in rapporto prima a Cristo e poi con gli altri; da essa si possono e si devono pertanto trarre i motivi ispiratori per la condotta umana in ogni circostanza della vita, personale e sociale. Per questo senza l’Eucaristia si vive “a braccio”, non perché il Signore sia meno vicino, ma perché si è meno capaci di rendersi conto della sua presenza”: lo dice una di noi, sposa e madre, abituata a cuocere il cibo e imbandire il desco per i famigliari, ma lo dicevano con altre parole anche le nostre nonne 
(come lei stessa ricorda), mosse dalla sapienza segreta della loro età: “Per il nutrimento che ci è dato nel sacramento che ha la consistenza del pane, vale l’antico adagio: Noi siamo ciò che mangiamo”.

Note
Il contributo riportato si è avvalso delle fonti che seguono.
AA.VV., Atti del 20° Congresso Eucaristico Nazionale, Milano 1983
A. Compte Sponville, Piccolo trattato delle grandi virtù, Corbaccio, 1996.
M. Delbrel, Che gioia credere! Gribaudi.
R. Guardini, Virtù, Morcelliana, 1972, pp.181 ss.
B. Maggioni, Le virtù del cristiano, San Paolo 2011.
C. Magnoli, Parole, gesti, silenzi della Messa. Brevi catechesi liturgiche, Ancora Editrice, Milano.
C. Magnoli, Riti e preghiere della Messa, Ed. Ancora, Milano 2018.
R. Martinelli, La spiritualità dei ministri straordinari della comunione eucaristica ai malati, contributo offerto nel 2003 all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, durante un Convegno sull’Eucaristia
C. M. Martini, “Attirerò tutti a me”, Centro ambrosiano, Milano 1982.
C.M. Martini, Le virtù, Ex libris.
G. Moioli, Il Salvatore divino, Ed. Viboldone, Milano 1985.
L. Monteleone, Testimonianza.
M. Montessori, La santa Messa spiegata ai bambini, Garzanti editore, Milano, 1970.

Mariarosa Tettamanti  

Immagine di copertina: dipinto di Arcabas.