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Quando il cortile era magico




Umberto, o la magia della differenza.
Umberto era mio cugino e abitava nel mio stesso cortile. Lui era diverso da noi. Prima di tutto non aveva età e questa per noi era una realtà così chiara che non ci chiedemmo mai quanti anni avesse. Faceva infatti parte della magia di Umberto essere uomo e bambino insieme: era un adulto affidabile e forte quando veniva a prenderci a scuola, portava le nostre tre cartelle per mezzo chilometro e costringeva alla fuga precipitosa i soliti bulli che tentavano di prenderci in giro, ma diventava un bambino quando giocava con noi a “rèla” o piangeva forte perché aveva il mal di pancia.

La seconda diversità 

di Umberto consisteva in un pensiero filosofico e poetico tutto suo, nel quale coincidevano desiderio e realtà: come sapeva passare da un'età all'altra, lui era in grado di transitare con leggerezza dal reale al fantastico e viceversa. A volte diceva, con assoluta certezza, che avrebbe sposato la maestra e raccontava tutti i particolari del matrimonio; altre volte affermava che sarebbe andato a lavorare, che avrebbe imparato a leggere e a scrivere, che lui e mia mamma non sarebbero mai morti, che un certo autista del pullman gli aveva detto che assomigliava a me (Me e te méum, sento ancora la sua voce). Lui ci credeva e anche noi ci credevamo: le cose che raccontava, almeno in quel preciso momento, erano vere e dopo tutto il futuro non era a portata dei nostri occhi. Imparammo così a non sottolineare troppo la distanza tra sogno e realtà: si trattava in fondo di due verità parallele, ugualmente soddisfacenti, e si poteva abitare ora nell’una ora nell’altra senza farla troppo lunga. Più tardi imparammo a dare gambe ai sogni per trasformarli in progetti, senza però privarli delle ali...  Ma d'altra parte, c'è qualcosa di più vero di un sogno vissuto con intensità?

La terza diversità

di Umberto la vedevano solo gli altri, noi no. Tutti sostenevano che Umberto parlava male, che non si capiva ciò che dicesse: ebbene, noi lo capivamo perfettamente e il suo linguaggio ci piaceva moltissimo. I nostri nomi uscivano dalle sue labbra, non storpiati ma personalizzati dal suo genio: le mie sorelle erano Lica (Enrica), Namanna (Giovanna) e Bigina (Luigina), i miei fratelli Biginio (Virgilio), Pamiano (Damiano), Bogio (Ambrogio), Pepe (Giuseppe), Neto (Ernesto)... mia mamma Mina (Giacomina), mio papà Callettu (Carlo, Carletto per lui) e così via. Io ero Mioscia e nessun altro mi ha più regalato un nome così dolce e bello. Ci capita ancora oggi di chiamarci come ci chiamava lui o di parlarci con il suo linguaggio: sono momenti di tenerezza struggente. E poi Umberto diceva: "Laca giò café" per dire "Versa il caffè", "Cùcur!" per dire "Zucchero!", "Luga!" per dire "Mescola!" e subito dopo "Oh pocca midoi, Callettu!" quando mio papà un giorno, dopo aver eseguito i suoi ordini, si bevve ridendo anche il caffè… per preparargliene subito un altro, caldo, zuccherato e mescolato, perché Umberto (e questa è la quarta differenza) era destinatario del più alto e assoluto rispetto nel nostro cortile: nessuno era onorato più di lui. Abbiamo assorbito questa venerazione vedendo il comportamento dei nostri genitori: quando morì la mamma di Umberto, lui venne a stare con noi per un po’ e per lui c’erano i piatti migliori, serviti prima degli altri. 
Una volta sola successe un fatto increscioso: accadde al bar, quando uno che veniva da fuori chiamò Umberto "Faccia da scimmia" e lui per tutta risposta gli mollò una sonorosissima sberla. Poi tornò a casa piangendo come un uomo, silenziosamente, con le lacrime che scendevano a stillicidio e creavano rivoletti sulle guance asciutte, senza i suoi soliti lamenti. L'episodio ci turbò profondamente, soffrimmo come cagnolini maltrattati e io nei giorni di pioggia sento ancora il bruciore insopportabile della cicatrice rimasta nel derma profondo dell'anima. Quanto al signore maleducato, si sentì sicuramente arrivare nove, ripetuti, fortissimi ceffoni: quando dico che realtà e desiderio si alternano nella vita…

La quinta differenza era simpaticissima:

Umberto non usciva di casa se non aveva riempito le tasche di panini imbottiti. Panini al salame, al prosciutto, alla mortadella, alla coppa… comparivano tra le sue mani come le carte e le palline dalle tasche dei prestigiatori, spargendo profumi irresistibili. Eppure Umberto era magrissimo… ma del resto anche questo faceva parte della sua magia da supereroe.

La sesta differenza

era nel suo ruolo di sagrestano part time, lavoro che svolgeva con serietà ed emozione: accendeva le candele sull’altare, ad esempio, ma soprattutto apriva e chiudeva il portone della chiesa ai funerali. Nessun morto in paese era disposto a rinunciare a questo privilegiato servizio: sembrava che solo Umberto fosse capace di aprire, non solo il portone della chiesa, ma la porta stessa del paradiso.

Ecco perché ogni tanto 

esco e guardo il cielo: in un angolo che conosco solo io c’è una finestrella dalla quale Umberto non smette di sorvegliare il suo cortile. Io lo so che tu sei lì Umberto: guardi il luogo in cui siamo stati felici e che tu hai colorato con la tua magica diversità. Ti devo dire una cosa Umberto: nessuno mi ha più amata e ammirata con l'assoluta devozione che tu hai avuto per me.
Con altrettanta ammirazione e identico affetto
la tua Mioscia

Ah ecco dimenticavo. Umberto non era un alieno superdotato, arrivato da un pianeta sconosciuto, non si arrampicava sulle pareti come l'Uomo ragno,  non sapeva nemmeno volare come Superman, però una cosa in più rispetto agli altri l'aveva: un cromosoma, il 21 raddoppiato (21, cioè 2+1=3, il numero della perfezione e dell'Amore Trinitario). Insomma, Umberto aveva anche la sindrome di Down, anzi era un mongoloide, come si diceva allora, ma noi questo non lo sapevamo e nemmeno c’importava saperlo. Le differenze tra noi e lui erano quelle che ho appena elencato ed erano delle gran belle differenze, tutte a suo vantaggio.

Mioscia Tettamanti