
Ritratto di quattro bambini vittoriosi
Ci sono bambini che più di altri portano pesanti fardelli. Situazioni problematiche dei genitori, disabilità, famiglie in crisi … Ne scelgo quattro. Tre sono storie scolastiche di vittorie raggiunte a caro prezzo, tre vite belle e piene, costruite là dove la cosa sembrava impossibile. La quarta è successa in catechesi, è ancora in pieno svolgimento e la vittoria è per ora soltanto intravista e sperata.
Mi sono state raccontate da tre insegnanti e da una catechista. Ovviamente uso nomi di fantasia e mescolo vicende diverse: nessuno è quindi autorizzato a riconoscere nei racconti persone o situazioni note.
Storia di Maria
Un mese prima dell’inizio della scuola, viene da me una donna sui 45/50 anni. È una bella signora, ma è molto tesa e preoccupata. Afferma di essere la mamma di una bambina di sei anni, che si chiama Maria. Si rivolge a me come futura insegnante della classe prima: la sua bambina, arrivata tardi, dopo tre figlie già grandi, ha dei problemi, non sa parlare bene, non è come le altre bambine. All’asilo non è riuscita ad andare, perché si ammalava continuamente. Poiché ci saranno due classi, mi chiede di prenderla nella mia. Aggiunge che mi telefonerà anche la psicologa dell’ASL. L’ascolto con gentilezza e poi la congedo senza promettere niente.
Il giorno dopo mi telefona davvero la psicologa. Conferma il racconto della mamma e anche lei mi chiede di inserire la piccola nella mia classe. Sono tempi in cui queste cose si fanno normalmente: siamo un plesso anarchico, ci gestiamo praticamente da sole.
Per saperne di più sulla bambina, telefono alla logopedista privata che, a dire della mamma, la sta curando. La terapista mi presenta un resoconto allarmante: fino a poco tempo fa la bambina parlava solo a bassa voce attraverso le orecchie e la bocca della mamma, si stendeva sul pavimento anziché sedersi, si comportava insomma come “una bestiolina”. Ora per fortuna è migliorata, ma sarà impossibile che impari a leggere in tempi normali; anzi, lei ritiene che quest’anno non potrò promuoverla: l’ha già detto alla mamma. Promette di mandarmi qualche esercizio e qualche scheda e di telefonarmi ancora.
Qualche giorno dopo la mamma mi fa conoscere la bambina. La spinge avanti vergognandosi: ”Eccola, lei è Maria”. Sono sbalordita: davanti a me c’è una bambina bellissima, piuttosto alta e aggraziata, con due lunghe trecce nere. “Questa bambina è intelligente” penso. Gli occhi scuri lo dicono in maniera inequivocabile. Nello sguardo chiude una consapevolezza dolorosa, qualcosa di pesante e di dolce da custodire. Non capisco.
Con l’aiuto della collega capo-gruppo formo le due classi nel modo più equo possibile. Nella mia, insieme a Maria, inserisco Rita, una sua amichetta particolarmente assennata. Non so ancora chi sarà l’insegnante dell’altra prima, non è stata ancora nominata.
Finalmente ecco il primo giorno di scuola. Maria arriva in braccio alla mamma. Rita la prende per mano e la porta in aula. Maria la segue docilmente e si siede buona buona nel suo banco. Dopo i soliti giochi di presentazione, porto in aula un grande specchio e distribuisco ai bambini un foglio bianco, perché disegnino se stessi. Quando metto il foglio davanti a Maria, lei mi guarda e dice: ”Coa fae?” Riesco a stento a capire che mi sta chiedendo che cosa deve fare e le spiego bene la consegna. La piccola mi ridà gentilmente il foglio e mi dice, con l’aria di chi ha chiuso definitivamente il discorso: “No capace”. Le ridò il foglio con decisione, dico senza pensarci:”Certo che sei capace” e passo oltre. La bambina allora prende la matita, si mette a disegnare, ed ecco fiorire sul foglio una Maria bella e riconoscibilissima, anche se un po’ stilizzata e colorata con imperizia. Poco dopo la bambina scrive, copiando un po’ a fatica.
Quest’anno insegno la lettura e la scrittura incominciando dalla frase: “Noi siamo a scuola” “Il sole splende” “Nel prato ci sono le margherite”. Maria segue regolarmente il percorso, ma soprattutto legge pronunciando correttamente le parole! Dapprima scrive come parla, saltando le erre e le esse e ammassando le frasi una sopra l’altra in modo disordinato, poi, poco per volta, ristruttura il discorso orale e, alla fine della prima, scrive quasi correttamente. La mamma non la porta più dalla logopedista: la bambina non ne ha più bisogno e anche la psicologa la dimette. In classe siamo tutti così contenti di sentirla parlare sempre meglio che i bambini, per un po’ di tempo, anziché rivolgersi direttamente a me, dicono: - Maria, di’ alla maestra che...”. Allora lei si alza dal banco, viene alla cattedra e ripete diligentemente i messaggi. È un sistema un po’ dispendioso, ma molto gratificante ed efficace per lei.
La mamma però ripete ancora: ”Io l’ho vista subito da piccolina: era diversa dalle altre bambine”. Penso che la poveretta abbia avuto così paura di dare alla luce una bambina disabile che ha finito col credere di averla per davvero. Dovrei dirle di non portarla più in braccio fin dentro l’aula ogni mattina, ma sento istintivamente che non sarebbe una buona mossa. Qualche collega mi dice di non far entrare più la mamma a scuola, ma io non sono convinta. Preferisco darle del tempo, così che possa gradualmente disfarsi del suo fardello di preoccupazioni. D’altra parte chiede proprio poco. Tuttavia, quando la incontro con la mamma, la bambina si nasconde e, se parla, ritrova il suo linguaggio infantile e scorretto: questo fatto non me lo so proprio spiegare.
Finisce così la prima, incomincia la seconda e poi ecco la terza e la quarta. Maria è più brava in matematica, ma si difende bene anche in italiano. In quinta sono preoccupata: ho paura che alle medie, fuori dall’ambiente sereno e protettivo della scuola elementare, la piccola si blocchi di nuovo.
Per fortuna durante l’anno partecipo ad un corso di psicologia applicata con un professore di Como. Durante una lezione interattiva, presento il caso di Maria allo psicologo, che non ci mette molto a trovare la spiegazione giusta. Il segreto della guarigione di Maria è tutto in quel “Ma sì che sei capace!” che, senza neanche pensarci, le ho detto il primo giorno di scuola. In questo modo le ho dato fiducia, comunicandole un messaggio diametralmente opposto a ciò che era abituata a sentirsi dire. Lo psicologo dice anche che ho fatto bene a non cercare di staccare la bambina dalla mamma: in questi casi si forma tra figlio e genitore una specie di “sistema chiuso”, pronto a serrarsi ulteriormente di fronte ai tentativi di scioglimento esterni. Ciò che lo sguardo di Maria custodisce, infatti, è la dipendenza di una mamma dalla sua bambina. Nessun miracolo, dunque, nessun mistero: è stata la mia inguaribile fiducia nei bambini a farmi fare la cosa giusta e a salvare la piccola da un destino di dipendenza.
Oggi Maria è notaio, come le sue compagne di scuola preferite. Qualche volta mi capita d’incontrare la sua mamma in paese, quando esco con la classe. Ci guardiamo con un sorriso, senza trattenere un filo di commozione.
Storia di Angelo
Angelo, ad onta del suo nome, è il classico scolaro difficile, irrequieto e aggressivo, uno di quegli scolari insomma che mantengono vivace il clima della classe.* Ogni giorno ho il mio bel daffare con lui: calmarlo è un’impresa e chiedergli un po’ di attenzione è come pretendere la luna. A volte assume un’aria spaventata, così, di punto in bianco, senza una ragione.
Questa mattina ha preso la sua matita e l'ha temperata a lungo fino ad ottenere una punta affilatissima, come quella di un ago. So che cosa intende fare, lo vedo nel brillare eccitato degli occhi, così non lo perdo di vista un istante, pensando di fermarlo al momento giusto.
Invece lui riesce nel suo intento: lo capisco dal grido altissimo della Ludovica, seguito da un pianto disperato. “Ah … è toccata a lei” penso e mi avvicino per controllare il danno e consolare la bambina. E lì ecco l'incredibile sorpresa: non è la Ludo che piange, ma lui, il mio Angelo, e singhiozza come un vecchio, mentre la compagna lo guarda sbalordita, massaggiandosi vigorosamente il lato B colpito dalla punta acuminata della matita. É come se mi dessero uno schiaffo: non ho mai visto Angelo piangere, neanche quando si azzuffa con i compagni … e questo succede almeno tre volte al giorno.
Incomincio a parlargli piano, con dolcezza: “Che cosa c’è Angelo? Che cosa ti è successo?”
“Niente”
“Non ci credo, se piangi così, qualcosa è accaduto. Che cosa ti hanno fatto?”
“Niente”.
“E allora perché piangi?”
Apre la bocca per parlare, ma dalle labbra non esce suono. Incomincio a spaventarmi seriamente, quando interviene Ambrogio: “Te lo spiego io maestra. La sua mamma di notte va in giro, così suo papà ha detto che prende lui e i suoi fratellini e li porta via e lascia a casa la sua mamma da sola”. Conosco bene i genitori di Angelo: sono stati miei compagni di classe alle elementari, sono delle brave persone e, per quel che ne so, vanno molto d’accordo. Interrogo di nuovo Angelo e mi arriva un racconto confuso, spezzato: “Stanotte … no, un giorno … una notte … Un giorno mia mamma andava a fare la spesa, allora è passato quello della banca, il suo amico, e lei è saltata su sulla macchina, è andata via e ha lasciato lì me”. Si mette di nuovo a piangere.
“Ma non devi piangere per queste sciocchezze” dico: “La mamma è andata a fare un giro e ti ha lasciato lì, perché sa che tu sei grande e sei capace di andare a casa da solo”.
“L’ha portata via”
“Ma poi è tornata”
“Alla sera. E io ero a letto e il papà gridava. È d’un anno. E quando io ero … ero in prima si sono messi dietro a parlare. Prima no, non parlavano d’un anno”
“Ma perché tu piangi adesso per una cosa che è successa tanto tempo fa?”
“Perché forse lo fa ancora”.
Parlando con la mamma di Angelo vengo a sapere che la coppia ha avuto un normalissimo momento di crisi che ormai i due non ricordano nemmeno più. Eppure il bambino si è tenuto nel cuore per più di un anno il ricordo, l’angoscia e soprattutto la paura. Per fortuna il problema ora è uscito allo scoperto, così i genitori hanno la possibilità di rassicuralo e di stare molto attenti a non farlo più soffrire, cercando di andare sempre d’accordo.
Oggi Angelo è un marito e un papà felice e orgoglioso; fa l’autista e, quando passa per le vie di Milano, il tram che guida non sferraglia: canta. Forse voi non mi crederete, ma a me è capitato più volte di vedere matrimoni in crisi salvati misteriosamente dal dolore infantile.
Storia di Paola
“Sai maestra che forse l’anno prossimo posso portare gli stivali?” La piccola Paola mi parla sottovoce, all’orecchio, lo sguardo acceso dalla speranza e dalla gioia. La poliomielite le ha storpiato un piedino, ma poco poco, delicatamente, forse dissuasa dal vaccino, o forse perché le dispiaceva rovinare una bambina così bella e dolce. Paola corre e salta come le compagne, ma la sua gambina destra è un po’ più esile dell’altra e la costringe a calzare soltanto scarpe ortopediche. Tutti i giorni guarda con desiderio e tristezza le calzature leggere e colorate delle amichette.
“Certo sarebbe bello se questo succedesse, però guarda che anche le tue scarpine sono molto belle” le dico. Mi guarda con occhi saggi e scrutatori: non sa se credere o no a ciò che le sto dicendo. Poi il visetto si fa improvvisamente raggiante: ha deciso di credermi. Corre via felice dimenticando almeno per ora gli stivaletti. La sera stessa dice alla mamma: “Vero mamma che le mie scarpette sono belle? L’ha detto anche la maestra!”. Anche la mamma ora è felice e il giorno dopo non finisce più di ringraziarmi.
Oggi Paola è una ragazza dai lineamenti perfetti e dolcissimi. Solo guardandola attentamente si può vedere che calza ancora le scarpe ortopediche, ma chi non lo sa non se ne accorge: la sua andatura lievemente zoppicante le dona in realtà una grazia tutta particolare, come se invece di camminare danzasse.
Storia di Angelica
Angelica, 7 anni e un quoziente intellettivo molto alto, è tormentata da un disturbo del comportamento che la rende molto irrequieta. Ha un fratellino disabile più piccolo di lei e due genitori in forte crisi matrimoniale, alle prese per di più con problemi economici soffocanti. La mamma da tre anni è preda della depressione e la bambina è spesso testimone dei suoi pianti e del suo desiderio di morire. Come tutti i bimbi, la piccola invia preghierine alla Madonna perché la guarisca.
Un giorno però, travolta dalla disperazione, la mamma si toglie la vita impiccandosi nel bosco vicino a casa. Alla notizia della morte, Angelica ha una reazione molto forte e nei giorni seguenti chiama cretina la Madonnina, dice che Dio non esiste e non vuole andare né in chiesa né al catechismo.
Passano un paio di mesi e un pomeriggio la bambina decide di seguire all’oratorio una catechista alla quale è affettivamente legata: la donna deve sostituire una collega nel gruppo dei bambini di 9 anni. Tutti insieme i ragazzini leggono una delle storie dell’arcivescovo per la novena di Natale: è quella che parla di un bambino molto ammalato, che ha paura di morire. Nella discussione che segue, i ragazzi scelgono di parlare della morte e ognuno racconta le proprie esperienze: “Io ho perso il nonno … Io lo zio … Io ho una cugina che è morta giovane e ha lasciato due bambini…”. Angelica ascolta e poi alza la mano. Tra i ragazzi scende un silenzio quasi irreale. Con un po’ di nervosismo la bambina racconta: “A me è morta la mamma e voglio dire che ho dovuto anche cambiare casa, cambiare tutto …”. Si ferma e la catechista l’aiuta sottovoce: “È dura.” “Sì, è dura.” Angelica riprende: “E vi devo dire che quando mi hanno detto che la mia mamma era morta, sapete che cosa ho fatto? Mi sono messa a correre come una matta e poi ho dato le pedate a un armadio”. Angelica rifà la scena con rabbia e poi si siede al suo posto. La catechista non sa che cosa dire ed è lì che succede un piccolo miracolo. Uno dei ragazzini guarda la bambina con infinita tenerezza e dice: “Ci sta, Angelica, ci sta”. Anche gli altri annuiscono: “Ci sta”. E poi di nuovo scende il silenzio. La catechista riprende la discussione e guida i ragazzi a leggere le esperienze di morte alla luce della risurrezione di Gesù. Angelica ascolta, è molto attenta. Alla fine la catechista ha un’idea: “Ora giochiamo alle ri-presentazioni. Ognuno di voi a turno dirà il proprio nome e qualcosa di sé, ad esempio il colore preferito o la squadra del cuore, e poi terminerà raccontando una cosa bella che vuole condividere con gli amici”. Tutti i bambini raccontano le loro piccole esperienze di gioia e alla fine parla anche Angelica: “Io mi chiamo Angelica, il mio colore preferito è il perlato, non ho una squadra del cuore e sono felice, perché mia mamma sta con Gesù che le vuole bene ed è felice".
Scoppia un applauso, forte e lungo. Angelica trattiene a fatica le lacrime e poi chiede finalmente alla catechista di accompagnarla al cimitero. È serena: nella riscoperta felicità della mamma ha ritrovato, anche per lei, la possibilità di essere felice. La sua strada sarà ancora lunga, non facile, qualche volta addirittura terribile, ma oggi è finalmente ricominciato il suo cammino.
In conclusione, queste quattro storie ci ricordano alcuni atteggiamenti importanti, che tutti gli insegnanti e gli educatori conoscono, ma che forse ci farà bene ripassare insieme.
1. Crediamo sempre nelle capacità dei nostri bambini e incoraggiamoli costantemente, perché anch'essi possano credere in loro stessi.
2. Cerchiamo di essere molto attenti agli stati d'animo di ognuno dei nostri bimbi e cerchiamo di capirne le ragioni per poterli aiutare a superare i momenti difficili.
3. Abituiamo i nostri piccoli a vedere il lato positivo di sé stessi e ad accettare di buon grado le eventuali disabilità trasformandole in punti di forza.
4. Crediamo nella forza "terapeutica" del gruppo e dei compagni tutor, che a volte sono maestri e testimoni più e meglio di noi.
5. Ricordiamoci che spesso, quando non sappiamo che cosa fare, il Signore mette in fila le cose in modo da condurci dove Lui sa e vuole. Possiamo fidarci, è garantito.
*Oggi sappiamo che si trattava semplicemente di un bambino iperattivo, ma negli anni in cui accadde questa vicenda ancora non si parlava di queste neurodivergenze.
Maestra Mariarosa
immagine di copertina tratta da "Il bambino con le scarpe rotte" di Ilaria Zanellato