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Emmaus in chiave MISCE


Rileggiamo la vicenda di Emmaus,

ispirandoci ai dipinti di Arcabas,

e cercando di vedere che cosa ha da dire al nostro ministero.

 

Nel dipinto di Arcabas i due discepoli di Emmaus sono in cammino con Gesù, però non lo riconoscono: l’evidenza della sua morte è penetrata così profondamente attraverso i loro sensi, da stringere il cuore nella morsa della certezza che non lo rivedranno mai più. E questa certezza, unita alla sensazione del fallimento di una vicenda nella quale avevano creduto, è così forte e irreversibile da mettere sul volto del Maestro una specie di maschera immaginaria, che gli vela i lineamenti. Il Signore li incontra stanchi e delusi, li lascia parlare, raccoglie le loro confidenze e le loro lacrime, capisce la confusione della loro mente e lo sconvolgimento profondo del loro cuore. 

Solo in un secondo momento

Egli parla, ma non dice chi è, non li consola, o meglio li consola nell’unico modo possibile: mostra il senso e l’essenza luminosa della croce, articolando in modo nuovo la Parola antica. Gesù non vuole la sofferenza per nessuno, nemmeno per se stesso, ma siccome la nostra creaturalità e il nostro peccato la impongono, Lui è pronto ad assumerla, per stare con noi fino in fondo, senza riserve. La croce è sofferenza imposta dall’amore e proprio per questo diventa salvifica: aggiunge alla nostra umanità ferita ciò che le manca per vedere il Paradiso che si apre “come in cielo così in terra”. 

E siccome l’effetto

della vera consolazione è la gioia, ecco che nel cuore dei discepoli una serratura si apre: è un pertugio attraverso il quale s’insinua la letizia che poco per volta colora i paesaggi interiori, mettendo in fuga il grigiore dell’esperienza di morte. 

Allora nasce la dolce

insistenza della preghiera: “Resta con noi Signore!”. I discepoli hanno scoperto il segreto di luce custodito nel costato trafitto di Gesù e sanno, inconsapevolmente ma con certezza, che da lì viene la possibilità di essere ancora felici. Perciò lo trattengono: non possono lasciarlo andare, ne va della loro vita. 

E finalmente ecco il riconoscimento,

ma soltanto allo spezzare del pane, non prima. E mentre il Signore si rivela, contemporaneamente scompare. Meraviglia, stupore, pensieri ancora confusi e sentimenti già travolti dalla gioia. Silenzio. 

Al posto di Gesù

resta la sorpresa e un interrogarsi che è già fede, luce di fede. L’hanno incontrato, può bastare. 

Può bastare 

alla loro vita e alla vita degli amici. I due lasciano la taverna e la cena ancora sul tavolo, hanno fretta di arrivare a Gerusalemme: qualcosa brucia dentro, Qualcuno spinge, si deve andare, si deve annunciare, si può di nuovo vivere … e tutto è nuovo, perfino il cielo ormai scuro e le stelle che lo bucano lasciando trapelare la luce.

È esattamente 

ciò che siamo chiamati a fare noi con i nostri anziani:

primo,

ascoltare le litanie di dolore e i grani di gioia sparsi nelle loro vite, racconti autobiografici ai quali aprire la porta perché s’innestino nella nostra esistenza per non uscirne più;

secondo,

sminuzzare per loro la Parola di Dio e mostrare il senso della sofferenza, come ha fatto Lui;

terzo,

avere fiducia nella gioia che la Parola non mancherà di creare dentro di loro e aspettare con pazienza che la serratura del cuore si apra;

quarto, 

pregare insieme a loro, pregare senza stancarci, pregare imparando poco per volta l’insistenza fiduciosa;

quinto,

diventare mani di Cristo, mani benedette che danno il suo Corpo, mani non più nostre che spezzano il suo pane;

sesto,

coltivare lo stupore: è Lui, è venuto ancora una volta e verrà sempre;

settimo,

far intravedere una vita nuova, utile, bella; se i giorni si sono ristretti non importa, saranno abbastanza per dire tutta la fede che abita il cuore … in vista della vita ancora più bella che tutti aspetta in Paradiso.

Mariarosa Tettamanti